Avevo l’ universo
Avevo l’universo tra le mani
sentivo il pulsare della vita
negli albori dei mattini e della sua magia.
Avevo condiviso la mensa con gli amici
e il canto e il riso
solcando le vette delle stagioni fertili.
Ora sono sola io e me stessa
nel mio vagare avrei voluto non fosse realtà.
Riprenderò a volare i confini dell’eterno
a remare il mare sempre attento
espanderò il sorriso nei colori della speranza
eluderò l’effimera finzione
di ciò ch’è rimasto nelle tasche vuote.
Briciole che condividerò con l’ ombra dell’ignoto.
Ero sole e sarò sole
ero luce e di luce brillerò ancora.
Coltiverò il cuore
dai sentimenti raccoglierò bacche di sorrisi
per regalarli a stracci di verità.
Scorgerò il mio continuo vivere
nella rugiada del mattino
schiuso al rinnovo di una vita diversa.
dalla Silloge poetica SE IL CUORE AVESSE LE ALI di Marinella Fois- VITALE EDIZIONI- GENNAIO 2016
Commento critico di Lucia Sallustio
Fin dall’apertura della raccolta poetica, costanti appaiono l’uso metaforico dell’imperfetto, di per sé tempo dell’indefinito, dove i ricordi restano sospesi in attesa di essere raccolti e custoditi nel cuore. E l’imperfetto, come perdurare del passato, si contrappone alla indefinitezza del presente, assumendo i contorni del tempo della felicità, del sogno, verso il presente della dura realtà. Il passato remoto è poco ricorrente e, quando se ne fa uso, è tempo dell’ incubo, dello smarrimento in un viottolo cieco, che ammorba come febbre, scaraventa il corpo, lo fa tremare di paura, fino al sopraggiungere della primavera che disseta il corpo febbricitante e lo rigenera a nuova vita.
Di quel tempo indefinito, l ‘autrice preserva le gioie più grandi “Avevo l’universo tra le mani” a compensare il tempo del presente, tempo della solitudine e dell’incertezza.
La triade temporale, passato, presente e futuro, si completa nella fiduciosa apertura sul futuro “riprenderò a volare i confini dell’eterno”, per cui la poetessa si ritaglia un’alternativa di vita, una “vita diversa”, una rinascita simboleggiata dalla rugiada del mattino. Lottando contro l’ipocrisia, a dispetto del poco rimasto nelle tasche quasi vuote, nutre la speranza di tornare a brillare come il sole, la prima delle stelle, coltivando il cuore per raccogliere sorrisi e farne dono.
In Eri bocciolo, in un duetto di rimandi dal “Tu” all’Io”, dall’allora al presente, dall’imperfetto al presente, la poetessa, assimilandosi ad un contadino che rende feconda la terra con il suo duro lavoro, preserva memoria di quel bocciolo, dopo averne raccolto ghirlande di petali.
La raccolta è pervasa di costanti riferimenti al mondo della natura percepito romanticamente nella sua vitalità e nella sua essenza generatrice. L’immagine più ricorrente è, infatti, quella di una cerbiatta che nasce gentile ed innocente e, con l’avanzare dell’età, è divenuta recalcitrante, tanto da far paura alla natura facendo fuggire via gli uccelli o facendo svestire le nuvole. Quando la tenera cerbiatta diventa furiosa come cavallo impazzito e vuole seppellire il ricordo che infiamma, solo la natura riesce a portarle soccorso, pietosa nelle vesti di luna che ammanta di umida sera la cerva in attesa di una carezza lenitiva al suo dolore.
La Fois fa domande sul senso della vita, un senso che sembra non esserci, cerca risposte attraverso l’osservazione del corso della natura. Si chiede dove volino le rondini quando un nido non c’è più e la riposta immaginata è che volano in un cielo terso dove possono ricostruire il nido, simbolo della rigenerazione, della vita stessa che non si esaurisce mai nel singolo individuo ma che nel rigenerarsi della natura trova un senso compiuto, “ Un nido/ che aliti nuova vita/un sogno diverso sospeso a grappoli di verità”. Un tempo senza primavera riporta il lettore all’amarezza e alla vacuità del presente, privato del nido familiare, un tempo innaturale quello senza stagioni, soprattutto senza primavera. Eppure è nel cuore il senso dell’esistenza, è là che si rinnovano le primavere attraverso il ricordo delle stagioni fruttuose passate. È là che volano le rondini, laddove sono amate, dove si custodiscono i sogni. Torna l’immagine cara del contadino amorevole che coltiva la sua terra, come la poetessa coltiva sogni nel suo cuore. Le rondini stesse assurgono a metafora, già esplorata in letteratura, di pensieri,di emozioni, del vagare della mente dietro i sogni e del cuore alla ricerca di una identità.
La raccolta è pervasa da intima malinconia, da un velo nostalgico che “nel viale dei ritorni”, ripercorre il passato. Attraverso il ricordo si profila il tu, compagno di vita, affiora la tenera immagine delle mani intrecciate dei due innamorati, folgorati da un primo amore che è “lapillo ardente”, mai spento nemmeno dalle alluvioni che hanno scosso la vita dei due sposi. Un amore cresciuto e vissuto nella sua carnalità e nella sua totalità, mai scordato, perché “fior di giovinezza”, radicato nella terra e preservato dalla poetessa che, delicatamente, ha reciso le spine dallo stelo per non farsene graffiare. Di quel fiore la poetessa preserva la bellezza “nel giardino dell’anima”. Anche se la vita ha portato momenti di cattiva compagnia, carovane gitane hanno condotto al deserto, valicando le dune e dormendo sotto le stelle la poetessa ha ritrovato, infine, il fiore nel sogno. Nella notte d’agosto, il fiore del deserto, rosso di passione, ha lenito con un bacio l’ansia disperata.
L’amore è spirito, carne, ed è Vita. Ha portato i suoi frutti che danno senso e valore alla vita con i gridolini di gioia dei fanciulli, i nipoti, “carne della mia carne”. Sono i frutti del mandorlo in fiore, testimonianza del cielo e del proseguire della specie umana. La poetessa fa uso di una descrizione evangelica che dà forte valore cristiano ai versi.
La raccolta procede in un’alternanza di stati d’animo tra il triste e l’orgoglioso, il malinconico e il fiducioso che i tempi della felicità torneranno ancora, con la consapevolezza che non sempre la semina porti germogli, a volte dà vita “ a rospi gracchianti”. È inverno, le nubi si schiantano sulla scogliera e non rinfrancano. La delusione è “albero di veliero” nella tempesta, oscilla fragile. La poetessa fa appello alla preghiera, appresa da giovane, diamante pietoso quando l’amore delude e rimane struggente la voglia di amare testimoniata dalla sofferenza del verso “Vorrei poteri amare”.
In “Canto del gallo” si ritorna alla malinconia del presente, l’autrice cammina su “strada di pietra” alla ricerca di verità nascoste, di identità sconosciute, indagando sul “limite umano”. Ha idee confuse, annega le mani in acquitrini infestati da insetti per desistere dall’accarezzare il volto ancora amato che la fa soffrire. I pensieri intricati sono “matassa di filo spinato”, fanno male. Il presente urla il risentimento, rivendica la ragione. Riemerge la speranza in un futuro in cui la poetessa è disposta a barattare la bontà con la perfidia, scavalcare muraglie insormontabili, resa scaltra dalla esperienza amara della vita. Come maga preparerà pozioni, disposta a ricorrere all’imbroglio pur di preservare i propri affetti, nuova Circe ammaliatrice, nella speranza che il canto del gallo, al levarsi di un nuovo giorno, risvegli l’animo dell’amato dal letargo, lo riconduca all’azione.
La gioia è un sentimento esplosivo connotato da colori e profumi che lo rendono più tangibile. Nella lirica Il cuore non è più, si tinge del rosa delicato di uno stormo di fenicotteri che colora di rosa le pareti della stanza dei sogni, pervade il petto, intenerisce. I gomitoli di riflessioni non sono più “matassa di filo spinato”, ma si srotolano su “tappeti della concordia”. L’autunno, carico di vita e non preludio della stagione del letargo, è splendore e il cuore non è solo, ha ripreso il suo ritmo in un valzer, mentre il vento asciuga le lacrime.
La gioia esplode in petto e ha profumo di latte in “Mano nella mano”, poesia delicata dedicata alla figlia ormai adulta, che teneramente l’autrice definisce “vita /in quest’autunno mio/ pieno di colori d’oro”, il “canto più bello”, quello dell’usignolo nel “giardino del cuore”. Nasce un nuovo vigore dal connubio della specie, madre e figlia che “insieme” frantumeranno il buio con un progetto di vita condiviso. Sarà l’amore a fare rinascere il sole che illuminerà il cammino delle due viandanti che “mano nella mano” conteranno i passi “nelle rughe del tempo”.
“Vienimi amore”, è l’espressione della donna innamorata che invoca l’amore, conscia che senza l’amato la vita non ha senso, i giorni e le notti non hanno più le stesse ore, diventano terribilmente lenti e stanchi. Chiede al suo amore di non abbandonarla nel deserto, dove i pensieri sono tornati ad essere “groviglio di filo spinato”. La poetessa, delirante e con toni di novella Saffo, riconosce che la sua vita è legata all’altro, al tu che disseta, nonostante l’indifferenza dell’amato.
La silloge poetica si delinea, quindi, come canto all’amore, vissuto in tutte le sue sfumature fino ad assumere sensualità tinta di eros nella lirica “Perché tu sei cielo”. La richiesta dapprima soffusa di un contatto corporeo, proibito, di uno sguardo che valica l’animo, diventa carezza sempre più audace nei toni fino a sconfinare nel completo possedimento dei corpi, allo sfociare nella “piena di piacere” che è riaffermazione prepotente della vita “perché tu sei cielo che toccherò con le dita”.
Da donna e amante, in un dichiarato odi et amo di catulliana memoria, la poetessa tocca la disperazione per un amore “irrigidito” nel presente, distante come inverno e si chiede quando il sole scioglierà il ghiaccio che è sceso tra di loro e quanto tempo dovrà attendere prima di un nuovo bacio sulla bocca amata delicata come petali.
L’orgoglio di essere donna è ben evidente in tutta la raccolta. Nella poesia “Siamo tutte un po’ lupe”, ritorna l’istinto di donna, tenace nell’aggrapparsi all’amore per sopravvivere, per trovare un valore alla propria esistenza, scaldarla con il suo soffio vitale. Compare l’immagine emblematica della sera lacerata dall’ululare della lupa e, non a caso, la poetessa utilizza il termine “urlo” conferendo alla lupa connotati umani e femminei. Donne emancipate che preservano caratteri romantici, capaci di scorgere la verità e il senso della vita scolpito nel volto della luna.
In “Sii onda”, la donna è essere coraggioso nell’affrontare la vita, resa collerica da quanto si porta dentro. Un cuore offeso che, ciononostante, continua a palpitare e profuma di ginestra, che fiorisce a primavera e si rigenera proprio allorquando la natura partorisce nuovamente fiori e teneri cerbiatti sul ciglio delle strade. La donna é vista come creatrice, come madre terra, onda del mare abbracciata dalla roccia “nel suo eterno spumeggiare”. Affiora forte l’idea dell’infinito della specie della quale la donna è Vestale contro l’indefinitezza del presente.
Eppure la donna /Vita è tradita da un destino avverso, intriso di sofferenza, ha “occhi al vento di parole/spargono lacrime amare/che rimbalzano come biglie beffarde”. É frastornata da memorie rimosse da un tempo assimilabile al movimento del mare, una donna in crisi di identità, alla ricerca dei perché e dei quando il cammino disegnato è stato smarrito. Una donna afflitta, indebolita dal tempo che è “volpe rapace” mentre la mente è ormai “sconnessa senza più età”. La compassione giunge, accarezza e arrossisce di vergogna di fronte ad una donna che non si arrende facilmente, né davanti all’illusione tradita, né all’indifferenza dell’amore, ma che trova la forza di rialzarsi dopo ogni colpo e incita il cuore a non lasciarsi morire, perché “il tempo è breve a vivere eterno”.
Per un’autrice che trae energia e vigore dalla natura, è evidente che la stagione preferita sia la primavera, così ricorrente nella raccolta poetica. In “Scioglimi Amore” è stagione fertile, di armonia del bosco, trillo del cucù, scalpiccio di vita nuova come quella dell’immagine tanto cara alla poetessa dei “giovani cerbiatti sulla strada”. La lirica presenta un quadro arcadico, un idillio boschivo con la quercia antica che, complice, allunga le braccia per schermare l’avvenente audacia dei due innamorati, tra i tanti che nel passare degli anni ha visto amarsi alla sua ombra. Una sensualità rinnovata di corpi, raggiunta evidentemente nel sogno, all’ombra del cuore. Un amore benedetto dalla natura e la semina fertile in una zolla sarà bagnata dalla nuvola dell’amore. La chiusa è invocazione all’amato a mietere la nuova fioritura. E come violoncello spanderanno al vento le note d’amore perché tutti sappiano e possano gioire con loro.
Poiché la natura è letta con gli occhi dell’anima, può capitare che la primavera si presenti improvvida, con alberi da frutto che non sono fulgidi e non conciliano la danza e che la malinconia prenda il sopravvento in età avanzata, quando il sole inclina a ponente “nell’ora in cui/i capelli sono tutti bianchi. ”
In “Dimmi che non è vero” la poetessa, incredula, implora l’uomo che ama di non “essere impetuoso come il mare in tempesta” per non distruggere l’illusione. Nutre rammarico rispetto ad un’intesa mai pienamente raggiunta, incapace di scorgere la sua sensibilità. Il viaggio dell’amato gli ha conferito concretezza e lo porta a rifuggire dai sogni dell’altra, dal suo “parlare gentile”, dai suoi “occhi sinceri“ che, anzi, gli disturbavano i pensieri. L’amarezza al fondo di questa poesia è nella constatazione che il suo uomo non abbia voluto leggere il mistero dell’infinito negli occhi della poetessa, non abbia voluto vedere. La donna si profila, quindi, come depositaria millenaria del “mistero dell’infinito” anche se l’altro non ne ha saputo trarre vantaggio “sarei stato un buon libro e tu ne saresti rimasto deliziato”.
Nella lirica “Fiori di campo”, dai toni idillici e malinconici, fa capolino il senso che anche la Vita e la specie umana, come ogni elemento naturale, hanno un suo percorso definito. La poetessa vorrebbe che la voce soave e musicale la chiami nuovamente Amore, ma quella voce non risuona, né il fiume che scorre alle radici del suo Albero, metafora di Vita, la rigenera perché non è più acqua sorgiva. Alla fine di quel percorso, la terra ricoprirà i due corpi abbracciati in un’identica sorte, che è quella del destino dell’uomo: morire. Allora i corpi doneranno nuova vita, si faranno fiori di campo nell’ora dell’addio.
La vita procede “Tra sogno e realtà”, come nella lirica fortemente sensuale in cui l’isola deserta raccoglie tutte le aspettative della donna in attesa dell’uomo che ama “porto sicuro su cui ancorarmi”. Struggendosi nel desiderio di languide carezze, fa rivivere momenti di gioia passata al punto da sognare l’arrivo del suo uomo e, con lui, i momenti di felicità. Quando la realtà prevale, come in “Amore dissolto”, ci si trova di fronte ad un amore svanito nel tempo “il mio pensar di te/ è desiderio d’averti accanto”, in un presente che ha separato i loro passi e spento la fiamma dell’amore, “siamo cenere di carboni ardenti/spenti da un torrente in piena./-Ciottoli levigati dal suo trascinarsi-.
L’auspicio “insieme sconfineremo l’infinito”, rimane intrappolato in una promessa del passato non mantenuta. È l’imperfetto che tiene stretto il sogno di “camminare mano nella mano/nel viale che ho costruito/con rubini rubati al tramonto.” Il presente è tristemente “vita abbandonata all’oblio” in solitudine, è desiderio di abbracci e di amore, invocazione del compagno di vita a svegliarsi dal torpore dell’indifferenza, mentre l’Io lirico conferma un amore cresciuto nel tempo al punto da accettare dell’altro ogni imperfezione “perché ti amo come sei./-Imperfetto.-“
Come non definire l’opera della Fois una cantica all’Amore? “Se il cuore non avesse le ali” è sicuramente una raccolta poetica matura e potente, canto libero di una donna che negli affetti domestici crede fortemente e li coltiva con dedizione e orgoglio, i cui sogni si colorano di fiaba e magia, si popolano di vestali e cavalieri come nei sogni di fanciulla, inventandosi un folletto come guida in uno scenario non sempre agevole da percorrere. Dalla raccolta emerge orgogliosa e fiera l’anima sarda pur nelle sembianze di agnello umile e indifeso, due connotati che sicuramente appartengono alla Fois, fine poetessa dai toni semplici e gentili, capace di produrre versi accorati e vibranti.
—————————————————————————————————————————————————Fragile Maneggiare con cura di Ester Cecere
Recensione di Lucia Sallustio
Non avrebbe potuto fare scelta migliore, la poetessa Ester Cecere, per aprire una raccolta poetica intitolata alla fragilità, concetto già presente nella dedica tratta da Fratelli di Ungaretti: Bolla di sapone apre emblematicamente l’opera con il suo volo in un mondo ostile, dove il pericolo, oltre alla classica brezza del vento che sospinge e aiuta ma se violenta distrugge, può assumere sembianze di esili dita di un bambino.
Malinconica, aperta alla negazione ostinata, abbarbicata, procede il viaggio la crisalide, farfalla impaurita che non vuole uscire dal bozzolo, dall’illusione e dall’ipocrisia rifugio.
Ci imbattiamo subito in un’anima fragile, bambina, timorosa di avventurarsi nel mondo che percepisce in tutta la sua minaccia, un’anima che si identifica negli elementi più deboli della natura, quali una coccinella gioiosa e piena di slanci che incautamente può divenire pulviscolo in un campo di papaveri da trattori attraversato, o minuscola formica che cerca di risalire lungo lo stelo verde e sottile con esauste zampette arrancando sotto il peso, che da sempre trasporta otto volte il mio peso, da sola.
Ma è la stessa fragilità di donna che rappresenta la forza della sua esistenza nel rapportarsi alla vita con il dubbio perenne e l’umiltà che la rendono ancora più amabile agli occhi degli altri, i suoi cari, tutti compresi nella silloge e destinatari di omaggio poetico: il padre, la madre, il figlio, oggetti d’amore in quel donarsi incondizionato che è l’altro punto di forza di un essere che pure si dichiara fragile sin dal titolo dell’opera.
Un essere insofferente all’ipocrisia celata dietro la maschera, visi/una volta d’amore,/da oscuri livori trasformati; isolato nel silenzio, sipario di pesante broccato, su di un palcoscenico dove le parole,/acido solforico/ hanno sfigurato il cuore. Eppure, quella stessa fragilità prende consistenza, mentre non demordono i perché. Ed è questa ricerca delle cause per giungere a possibili, doverose soluzioni, che fa muovere i passi, pur nella loro incertezza, e riavvicinare all’altro, riconciliare con la vita.
Come Erasmo elogia la follia, la nostra poetessa elogia l’ingenuità che la caratterizza, la porta a sognare, a credere nelle favole di orchi cattivi e ingenue fanciulle rapite, altro segno della sua fragilità in un mondo sempre più disincantato. Un essere che avanza in punta di piedi, quasi timoroso di esserci, hai varcato la soglia del dolore/dove il respiro è deflagrazione.
Un’anima che cerca l’amore, si chiede dove sia, dove sia andato a finire, un’anima ferita vetri infranti e schegge/custodisco/d’ogni colore/d’ogni dimensione. Sono aguzzi, taglienti come rasoi e provano la persona, mettono in dubbio la capacità d’amare custodirò/un giorno/briciole d’amore? I fantasmi, a notte, assalgono questa creatura provata, incerta e hanno occhi di brace/occhi di pietra/lapidano il cuore.
La poesia Alluvione ripercorre la metafora degli eventi naturali destabilizzanti per l’animo umano: alluvione d’odio e follia/l’amore travolge. Messe a dura prova tenerezza e compassione, i frammenti d’amore non riscaldano il cuore contratto sotto le macerie. Constata, la poetessa, che in questi cataclismi naturali, l’essere man mano cambia identità, perde una parte di sé, si modifica. Ma è proprio da questa fragilità estrema che, irrobustita dalle avversità, nell’incertezza di un’alba nuova, annaspando e annegando in un mare rosso sangue, spaventata di fronte all’assenza di metamorfosi che permettano al bozzolo di diventare farfalla e volare, la poetessa trova la sua nuova dimensione, il suo orizzonte di senso.
In Sole di mezzanotte, l’autrice ribadisce il senso di solitudine, addirittura polare e nella notte inondata di luce siderale, si avventura alla ricerca della fonte primaria di luce e di vita, del sole del nuovo giorno.
La ricerca estrema di compagnia trova esaltazione nella poesia Sotto la pioggia, un cane dove l’accomunarsi con la solitudine di un altro elemento della natura, un cane dagli occhi speranzosi e infissi in quelli del viandante solitario, trova un momento di condivisione forte.
La speranza, la via d’uscita, s’intravvede già dalla poesia Sinergismo perduto dove la sinergia di anime mosse da un “afflato comune” anche se tardivamente incontratesi sembra rafforzare l’ipotesi che il rimedio alla solitudine sia nella sinergia d’anime. In stormo volerei , di nuovo emerge la voglia di trovare compagnia e forza dall’unione. Qui l’uso dei condizionali estrinseca aspirazione dell’animo ancora a livello velleitario, desiderio di farsi pilotare da ali giovani e forti, anche quando il peso degli anni rende fragili ed esposti. Ma poi la chiusa con la triste constatazione che gabbiano, passero o falco/da sola affronto il mio cielo evidenzia il rammarico, l’incapacità a fare gruppo, a beneficiare della auspicata sinergia, rende ancora particolarmente triste la condizione umana dell’Io poetico fino a questo punto della silloge.
Continua l’accomunarsi agli elementi più minuti e semplici della natura, quelli apparentemente più fragili ed esposti alle forze del cosmo con copiosi elementi di identificazione e di raffronto. Compaiono la crisalide nelle sue fasi di vita, la coccinella, il cane, la formica, il lupo ferito. Quando pure si potrebbero ravvedere degli elementi di forza o di aggressività, l’autrice li piega con delicatezza ad un momento di fragilità, quello in cui si è deboli, feriti, esposti alle forze della natura e ai soprusi.
Non meno speranzosa è la sezione di poesie che si apre con Illusione:
Ad una ad una
Caddero le torri.
Ad una ad una.
Non s’alzò più
Il ponte levatoio.
Travolta e dispersa,
l’invincibile armata.
Versi che decretano la fine delle illusioni che tengono compagnia all’uomo forte. A questo gruppo appartengono poesie dedicate agli affetti più cari, alla madre e al padre, al cui ricordo l’autrice s’appiglia cercando conforto nel momento di maggiore fragilità. Ma i ricordi stessi sono legati a momenti di altrettanta debolezza, quali quello della madre incapace di scorgere la sua fine imminente nella sfera di cristallo della vita o la figura paterna ridotta ad ombra che affianca ma che non si avvale del momento forte di vicinanza che una lapide, alla quale portare fiori per festeggiare compleanni, rappresenta da sempre per l’uomo.
Ancora velleitaria l’aspirazione appare nella poesia Volevo essere dove continua il gioco degli opposti, dove il senso di fragilità, il desiderio di essere arenaria per farsi modellare dall’acqua e dal vento, in una parola dalla vita, dove essere arbusto per disegnare arabeschi, collide con la realtà di essere elemento sempre più forte, granito, sequoia, dotato della forza resistente e duratura. Incomincia a delinearsi piano il cammino verso un nuovo status, disegnato dall’ossimoro della forza intrinseca alla fragilità o di una fragilità che, a patto che la si maneggi con cura, sa divenire forza oppositiva e resistente.
Continua la filosofia della negazione in Non scriverò d’amore dove l’aridità del cuore messo a dura prova dalla vita si ribella alla poesia d’amore. Solitudine e buio, incapacità momentanea di risalita, si confermano a tratti, come nella poesia La forra pervasa da disperazione. L’impossibilità del cuore a scrivere d’amore trova un parallelo nell’essiccarsi delle lacrime, come latice bianco che fuoriesce dalle ferite lasciate dallo strappo di un germoglio cresciuto nella scorza dell’albero. Resta, l’autrice, come manichino svuotato, modellato e adornato dal mondo con i suoi credo, doveri e amori che, immobile e apatico, si lascia vivere nella lirica Manichino. Traspare, a questo punto della silloge, una maggiore duttilità a farsi modellare, una minore resistenza, una leggera apertura alla vita, sancito dal brindisi che
Invitante nel bicchiere,
addormenterai un dolore antico
che mi rende insonne ancora.
Il monito successivo in Lupo solitario ad arrestare la corsa solitaria nella fragilità estrema delle ferite, per sfuggire a se stesso, senza branco, nelle foreste oscure, ad annusare l’aria, il profumo d’amore trasportato dal vento, è già inno più deciso alla vita, a non lasciarsi andare alla morte del corpo come alla morte dell’anima.
La condivisione di uno stesso destino volubile e incerto che determina l’esistenza umana è racchiusa in Davanti a due autoritratti di Tintoretto, dove i due volti di un uomo giovane e vincente e di un vecchio al quale la sorte ha tutto sottratto imprevedibile porgono forte, per contrasto, il messaggio della mutabilità della condizione umana, per questo ancora più fragile. Con la condivisione di uno stato personale con quello endemico dell’Umanità, una sorta di solitudine cosmica di fronte al destino, si chiude il gruppo di poesie che si è incamminato verso la speranza del vivere con l’invito a mettersi una maschera e partecipare alla vita nella poesia Il Ballo, pur nella consapevolezza che solo il buio della notte è momento di sincerità, quando non si guarda in faccia alla realtà.
Ci vuole Preghiera, con il suo dono altruista d’acqua ai nuovi germogli verde brillante, anziché alla spenta foglia il cui marrone è ricordo del passato splendore, per segnare il passo alla rinascita, al volo di farfalla che duri almeno un giorno, alla rivincita del tenero bucaneve che sbuca dalla coltre bianca e pesante fragile,/eppur fortissimo/affiorando. Finalmente l’autrice, si sente libera dalla zavorra del presente, mentre sorvola sul passato, schivando liane attraverso fitti boschi e considerando emblematicamente, quando sorvola il mare, che il mare non è mai uguale a sé, che il panta rei dell’esistenza cambia ogni volta scenari e scombina le aspettative, ma in fondo può donare nuove e più avvincenti prospettive. Per questo basta la memoria sbiadita dal tempo che tutto porta via e una goccia di rugiada a dare nuova vita alla rosa del deserto, ennesimo emblema di forza e bellezza nata dalla inconsistenza della sabbia.
Con Canto alla vita, nonostante, ci si avvia alla ripresa finale, alla razionalizzazione che la vita è degna di essere vissuta apprezzando perfino avversità e bassezze, come il volo basso dei pipistrelli, mediocri voli al buio in anfratti pericolosi, a rischio di cadute letali.
E la voglia di vivere giunge con la folata del maestrale a maggio, con il desiderio di volare, di respirare l’odore del mare che rinvigorisce, con animo di mutare il lamento in canto. La volontà negativa che si percepiva nel nonostante della poesia precedente, assume sembianze possibiliste nel forse de Il profumo del maestrale.
Così i giorni della vita,/identici/scorrono tra le dita. Sono tegole pesanti, sovrapposte le une alle altre, uguali. Eppure basta poco, piccole gioie domestiche, frulli d’ali, nidi e pigolii a restituire pienezza, a regalare emozioni giuste per andare avanti.
Dal finestrino, la vita chiude la raccolta regalando al lettore, seppure limitato da un forse che invita ad essere sempre cauti e non illudersi, uno spiraglio di apertura alla vita, il senso della continuità, la speranza dell’approdo del pellegrino, anima errante sospinta dalla vita, ad una stazione, al calore di un abbraccio, alla restituzione di un punto fermo e dell’amore, unica ancora alla fragilità dell’uomo.
La mia recensione alla Silloge poetica “L’anima e il lago” di Giorgina Busca Gernetti é apparsa sul numero di maggio 2011 della rivista letteraria Pomezia-Notizie e sui seguenti link:
http://www.francesca.lobue.literary.it/dati/literary/sallustio_lucia/lanima_e_il_lago.html
LINK all’autrice:
Recensione di Lucia Sallustio alla Raccolta di Racconti
ALTRI TEMPI
di Daniela Quieti
Edizioni Tracce – Collana Narrativa
2009, p. 56
Pubblicata nella rivista letteraria Pomezia-Notizie-Anno 17(nuova serie)
n.7-Luglio 2009-p.48
Un soffio. Un soffio leggero alita attraverso le pagine del libro, pervade e smuove dolcemente ogni cosa, gonfia le parole, dà voce all’Io narrante in un continuum refrattario alla frammentarietà del ricordo. Invade, infine, l’anima del lettore. Esondano emozioni senza aggredirlo, anche quando il ricordo è tristezza inevitabile del vivere, immobilità, morte come nel racconto “Funere mersit acerbo”.
Pietas cristiana coglie il lettore partecipe del sentimento forte del narratore per il quale la disperazione è rassegnazione alla vita e si consola nella gioia unica e saggia delle piccole cose del quotidiano, come l’arrivo di un pacco, il concerto o la Pasqua del paese.
Alti, illuminanti punti di riferimento per l’uomo del passato, si stagliano lo spirito di sacrificio, il senso del dovere, della famiglia, del lirico raccogliersi intorno al focolare nei lunghi e freddi giorni d’inverno allietati dall’ascolto. La Memoria del nonno recupera valori- culto, quasi una religione degli uomini. Guai al trasgressore, nessuna indulgenza. Ad ogni trasgressione, infatti, corrisponde sempre, giusta e inevitabile, una punizione e, nel rasserenante ordine delle cose, ad essa segue un emendarsi e rinvigorirsi dell’animo. Scaturiscono tempre forti come quella del nonno, appunto, determinate e mai rinunciatarie anche di fronte alla vanificazione delle scelte di vita, come quella della suora di famiglia o di zia Ubaldina.
Non serve all’autrice soffermarsi sul dettaglio. Con tratti leggeri d’acquerello, delinea e sfuma, allude, carica di lirismo i personaggi del passato che sfilano davanti ai nostri cuori come in una processione. Illusione, d’altronde, confermata dalla scelta della copertina, dallo splendido cromatismo e da evocativi sfumati dell’opera “Le serpi” di F. P. Michetti.
Con una prosa elegante, costruita in maniera impeccabile, dai ritmi lenti e cadenzati che ben corrispondono ai tempi e personaggi narrati, Daniela Quieti dona una straordinaria unitarietà alla sua raccolta di racconti.
Testimonianza d’amore come questi ricordi, ci dice, che so di poter issare come una bandierina sulla facciata del mio intimo edificio storico, per vederla sventolare, quando voglio, come meraviglioso assenso del passato alla realtà del presente
Con contrappunto appena soffiato, un velo di nostalgia mai fine a se stessa ma, al contrario, positivamente connotata, l’autrice allude ad una possibile salvezza per i guasti dei “tempi moderni” grazie al recupero della micro-storia di “Altri tempi”.
Quel soffio si fa carezza dolce e rassicurante sull’animo del lettore, come quella del nonno sul viso di fanciullo.
Lucia Sallustio
Daniela Quieti è nata e vive a Pescara. Docente di Lingua e Letteratura Inglese, collabora a testate giornalistiche e iniziative culturali. È operatrice volontaria in campo socio-sanitario. Ha pubblicato i libri: “Echi di riti e miti”, raccolta di racconti, prefazione di Romano Battaglia, Ibiskos Ulivieri 2010; “Uno squarcio di sogno” raccolta di poesie, prefazione di Aldo Onorati e postfazione di Giulio Panzani, Edizioni Tracce 2010; “Altri Tempi”, raccolta di racconti, prefazione di Giulio Panzani, Edizioni Tracce 2009; “Cerco un pensiero”, raccolta di poesie, prefazione di Ubaldo Giacomucci, Edizioni Tracce 2008. È presente in prosa, poesia e traduzione dall’inglese in diverse Antologie. Ha ricevuto significativi riconoscimenti in numerosi Premi Letterari.
Recensione ad “ANGULUS RIDET”-romanzo di Dirce Scarpello- edizioni PerroneLab, luglio 2010
Le Maripili di Angulus Ridet: una possibile lettura
Il romanzo d’esordio di Dirce Scarpello, autrice barese, è un’opera letteraria articolata che offre molteplici spunti di riflessione di grande interesse e attualità. Intreccia diversi stili e generi narrativi, dalla scrittura di genere femminile, con la quale si apre, al thriller fino a condurci a un finale inatteso arricchito da elementi tra il fantasy e il paranormale. Tra i temi suscettibili di dibattito, il mio particolare interesse è andato ad elementi che lo pongono nel più classico filone della scrittura di genere: l’intreccio di figure femminili, decisamente preminenti rispetto ai personaggi maschili meno caratterizzati e periferici. I personaggi femminili, Lola Console, sua sorella Mimì, Violetta e la figlia Penelope sono tra di loro complementari, i caratteri diversi si rinforzano l’un l’altro. Sono donne alla ricerca della definizione, o meglio, ri-definizione della propria identità, spesso negata o violata; donne alla ricerca di una stabilità con l’uomo che amano, all’interno della coppia, con l’ambiente, con il lavoro, con il proprio corpo, con se stesse. Sono legate da forti vincoli di sangue nonostante le loro vite sembrino scorrere parallele in luoghi differenti. Tutte convergeranno verso un unico luogo, Angulus Ridet, luogo dell’animo e delle radici, mai citato espressamente con un nome geografico definito ma che sappiamo essere collocabile nel territorio pugliese di trulli e masserie sulle quali svettano simboli tra il pagano e il cristiano, il cui bianco della pittura a calce riflette la luce abbagliante del sole del sud perché si astenga dal carpire segreti e storie che quelle primordiali abitazioni di pietra nascondono a occhi indiscreti. È questo lo sfondo dei drammi personali e delle riconciliazioni con la vita, degli incontri e delle fantasie dei personaggi che numerosi affollano il romanzo in un affresco umano vario ed emblematico.
La prima donna ad esserci presentata, tanto da sembrarci la protagonista del romanzo, è Lola Console, in fuga da un matrimonio fallito, nel momento del trasloco dalla capitale alla sua Puglia d’origine, intenta a raccattare le sue cose alla rinfusa, simulando il caos che è nella sua vita.
Nella interpretazione dei temi narrativi del romanzo ho trovato quanto mai illuminante e pertinente la chiave di lettura offertami dal saggio “La sindrome di Maripili” della giornalista spagnola de “La Vanguardia”, Carmen Garçia Ribas. Il saggio è stato tradotto e pubblicato in Italia dalle Edizioni La Fenice quest’anno. L’autrice spiega la sindrome in termini di tendenza delle donne a ritualizzare la sottomissione all’uomo nel rapporto di coppia, in famiglia, in società in genere, atteggiamento comune conseguente alla paura di non essere amate e, pertanto, di essere rifiutate. Premesso questo, trovo che Lola, che ne è palesemente affetta, non sia la sola figura femminile a soffrirne benché si presenti come il personaggio più fragile e irrisolto. Lola è una romantica, si è sposata per amore di Rocco e si è donata a lui con spirito di abnegazione al punto da annullarsi, rinunciare ad una propria autonomia lavorativa nonostante la laurea in giurisprudenza che utilizzerà solo dopo la separazione, nello studio dell’avvocato Gerardo al quale si legherà per fatale attrazione. Per amore Lola è disposta a tutto, a perdere la propria dignità, la stima di sé, a rischiare la proprietà e anche di più. Classicamente trova compensazione al vuoto affettivo nella maternità vissuta con iper-protettività e gravi scompensi educativi. Incontriamo suo figlio Mino tredicenne, appena uscito dall’infanzia, eppure già maturo e propenso al sacrificio, cosa che ne farà il solo personaggio maschile positivo, votato a un esagerato e gratuito eroismo che risponde al suo senso di protettività.
Lola è la figura femminile dalla conflittualità più evidente, più controversa perché come la sorella maggiore Mimì deve fare i conti con i nuovi equilibri innestati dall’emancipazione femminile negli anni ’70, gli anni della sua adolescenza, e con i tratti che connotano tre diverse generazioni. Lola si erge a figura-ponte tra il passato rappresentato da sua madre, il presente e il futuro più semplicemente liquidato attraverso sfuggenti figure più giovani, libere e più aggressive, come le ragazze che Mino frequenterà dopo il diploma. Solo in un guizzo d’orgoglio Lola riuscirà a chiudere con il passato di insoddisfazione e di rifiuto, ma lo farà con la stessa fatica con cui chiude la valigia prima di partire per la Puglia, incapace di liberarsi per sempre dei fastidiosi sensi di colpa cui le Maripili sono soggette.
Mimì, sua sorella, è invece un personaggio sicuramente libero dalla sindrome. Impiegata da trenta anni alle poste, sposata da dieci con Bruno, vedovo per sorte e giudice per professione, è l’esempio della donna razionale, che prima si è guadagnata la libertà professionale e poi man mano ha costruito intorno ad altri valori, quali un amore equilibrato e complice, improntato alla mediazione, alla condivisione di obiettivi raggiungibili e di progetti di vita che compensino la mancanza di figli senza cadere in auto-distruttive nevrosi e frustrazioni. Mimì riverserà il suo amore sugli animali che l’aiuteranno nel progetto di fare della pet-terapia la cura riabilitativa da molte depressioni e nevrosi della vita odierna. Lo stesso rapporto con suo nipote sarà scevro dalle fobie e angosce materne e improntato a principi libertari e di corresponsabilizzazione che permetteranno a Mino di vivere la sua gioventù con serenità e spirito di esplorazione. Mimì si pone, dunque, come personaggio femminile forte e vincente, ago della bilancia tra quelli che la circondano per legami parentali o di lavoro.
Fra i due poli spunta, dapprima in sordina in un letto d’ospedale, quasi da controfigura a Lola dopo l’incidente automobilistico e il ricovero, un’altra donna dal profilo complesso ed enigmatico: Violetta. Una coincidenza forte e necessaria all’intreccio narrativo determina il suo incontro con Mimì e Mino ad Angulus Ridet dopo l’infarto e il trapianto. Violetta, età 55 anni, laurea in economia, prototipo della donna in carriera, è determinata e abile manager, vincente sul piano professionale ma decisamente carente su quello familiare e affettivo. Per alcuni versi sembra essere proprio personaggio “anaffettivo”. “Sei senza cuore” le rimproverano in casa e tale si dimostra nei confronti di suo marito Vittorio, uomo debole e succube dei vizi e capricci della moglie di cui è innamorato e nei confronti dell’unica figlia Penelope.
Con Penelope ci troviamo di fronte al quarto personaggio femminile di rilievo, una donna che, pur appartenendo ad un’altra generazione, raccoglie molti degli aspetti della fragilità di Lola. Se si esclude Mimì, con Penelope le “Maripili” giungono a tre. Violetta e Penelope pagano lo scotto di una madre assente, la prima tuffandosi nel lavoro e perseguendo mete ambiziose, la seconda viaggiando e dimostrando a se stessa un’autonomia pari a quella della madre-antagonista. Penelope, come Lola, s’innamorerà e troverà nel matrimonio e nella maternità l’appagamento del proprio Io e l’affetto di cui manca. Infine, donna equilibrata e dotata di senso materno, ribalterà il rapporto con la madre malata accudendola dopo il trapianto e suggerendole la riabilitazione nel luogo-non luogo che dà il titolo al romanzo, Angulus Ridet, crogiolo di segreti familiari rinvenuti per caso o per destino.
È con questa svolta che il cerchio si chiude intorno al quinto personaggio femminile, quello che aleggia sui quattro come un’ombra: la nonna di Mino. Emergerà dal passato come una vera e propria vittima dei condizionamenti sociali e familiari durante la seconda guerra mondiale, una donna respinta che ha dovuto pagare un errore giovanile con un altro rifiuto che, in una reazione a catena, ha innescato dolore, fragilità, voglia di rivalsa e la paura perenne, marcatamente femminile, di non essere amate mai abbastanza.
di Lucia Sallustio
Andrea Masotti, Intrigo sulla Moskova
Romanzo – Ed. Ibiskos
Un romanzo dall’intrigo narrativo notevole, una promessa già dal titolo, che tiene avvinto il lettore e lo conduce per mano, perché in quei meandri non si smarrisca, attraverso slittanti coordinate spazio-tempo, in un vorticoso dinamismo bilanciato dall’unico luogo stabile presente, la Questura di Mosca. Qui l’imprenditore italiano Franchi, in viaggio per affari e testimone inconsapevole dei fatti narrati, si confronta con il commissario Gremov disposto a giocarsi l’ultima carta, quella vincente, con due terroristi da neutralizzare per ritagliarsi una carriera brillante.
Una fuga dà il via al romanzo. Svetlana fugge da Victor, o meglio sfugge dall’immagine estroflessa di sé, dal compagno di un percorso di vita che porta progressivamente al degrado fisico e morale e all’inevitabile annientamento. Una fuga che, in maniera imprevedibile come sempre avviene nella vita e con un abile colpo di scena narrativo, la condurrà a probabile salvezza.
Nessun personaggio, partito come dice Svetlana “avvalendosi della libertà, di rischiare pur di allontanarsi, si sente di affrontare la vergogna di una sconfitta”, per cui ciascuno di essi affronta l’ultima scommessa con coraggio ma anche sentimento. “ Qui a Grozny sono tornate le rondini, l’erba dopo la pioggia cresce ancora, nascono i bambini. Tutto tornerà come prima…”dice Khaskhanova accorata a suo fratello Timur al telefono per convincerlo a tornare a casa e farlo desistere dalla guerriglia.
Il senso del romanzo è insito in una citazione dal 1° Libro di Enoch, lo strano libro che sta leggendo l’unico personaggio statico dell’intera narrazione, Diana, la moglie dell’imprenditore Franchi, l’emblema dell’Occidente che sta a guardare tra il pigro e l’annoiato dalla stanza dell’elegante Hotel Holiday Inn: “Allora Raguel, uno degli angeli santi che era con me, mi rispose:-Questa lingua di fiamma, che tu hai visto, è il fuoco dell’occidente che perseguita tutti gli astri del cielo”.
Il mondo consumistico e materialistico occidentale che occhieggia nelle Adidas rosa che Svetlana aveva appoggiato presso il muro di un edificio per non rovinare, laddove più incurante sembra essere con il proprio corpo smunto e consumato da droga e abbrutimento, o nello zaino nero con la scritta CULT in rosso non è più benevolo o positivo di quello orientale permeato da focolai sempre attivi, odio disperato, attentati e sangue versato, torture e violenza. Odio e sentimento sono ovunque, s’intrecciano, si mescolano e Timur lo dimostra immolandosi per la salvezza di chi dovrebbe essere una nemica, perché come dice Svetlana in maniera provocatoria qualcuno ha detto che si finisce per assomigliare ai propri nemici, cosicchè Timur, per assurdo che possa sembrare, per un attimo ha pensato anche lui di volere essere russo. Sapeva Usman che il suo amico era diverso dagli altri e “non capiva Timur perché giovane e carismatico com’era non lo accompagnava nel suo odio disperato contro gli occupanti, un odio che forte come l’amore per la sua città martoriata dalla guerra, lo teneva vivo.”
Un tenero e fugace sentimento d’amore sboccia a sorpresa nelle ultime pagine del romanzo e irradia un’intermittenza di luce perché Svetlana è colei che porta la luce a Timur dopo una vita buia accecata da odio e vendetta e prima del buio della morte alla quale il giovane ceceno s’immola per non tradire sotto tortura.
Recensione di Lucia Sallustio
Carissima Luciana,
riuscirò a ringraziarti in versi?
Con sincero affetto
Daniela
LA MIA DECLINAZIONE
La mia
declinazione
sei
tu
di te
a te
te
sempre
tu
e io
con te.
Da “Graffi obliqui” di Daniela Quieti – Inedito
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Grazie a Marcello Fagioli per avere onorato e arricchito il mio blog con le sue testimonianze di emigrato. Ho letto i Ricordi con grande interesse, ammirando la scrittura fluida e precisa che mi trascinava di riga in riga ad apprendere sempre di più.
Mi piacerebbe continuare a ricevere i Suoi commenti sui miei articoli.
Lucia Sallustio
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NUGAE I
(riflessioni e ricordi di un vecchio emigrato)
MARCELLO FAGIOLI
Prima parte
Homo insciens
L’uomo chiamó se stesso homo sapiens, ma è stato troppo presuntuoso.
In un dizionario latino leggo, sapiens: intelligente, ragionevole, prudente, saggio e, pensandolo bene, nessuno di questi termini si addice all’uomo, oggidí.
Poi c’è l’altra definizione: re del creato. Ma se fino a qualche decennio fa non avevamo nemmeno un’idea dell’immenso universo che ci circonda e che le sonde spaziali non ci hanno ancora rivelato a sufficienza!
Non è neppure il caso di parlare dell’atomo, che oggi sembra essere costituito da un numero tanto grande di particelle che Fermi, un grande della fisica moderna, non poté trattenersi dall’esclamare: se l’avessi immaginato mi sarei dedicato alla botanica , riferendosi all’enorme numero di specie vegetali.
E sembra che il Creatore non avesse, neppure lui, molta stima delle nostre capacità. Ha dato all’uomo la ragione, ma non se ne è fidato per far funzionare l’organismo. Infatti gli apparati: respiratorio, circolatorio e tutti gli altri, che per milioni d’anni non abbiamo neppure sospettato che esistessero, sono autonomi.
A me capita, quando sono solo, di dover riscaldare o cucinare qualche vivanda e spesso, se sto leggendo o facendo qualcosa che mi interessa veramente, me ne ricordo solo quando sento odore di bruciato.
Cosa succederebbe se accadesse la stessa cosa con un apparato circolatorio, dipendente solo dalla mia volontà?
“Al di là del bene e del male”
La mia compagna mi ha lasciato, dopo cinquant’anni di vita in comune.
La senilità può dar origine a malattie terribili, che portano alla perdita della capacità di vivere degnamente. Ma io volevo che lei stesse ancora accanto a me. E quindi continui ricoveri in clinica e una quantità incredibile di medicine. Gli orari di una vita normale sostituiti dalla necessità di assumere pastiglie ad intervalli costanti.
È poi le necessità di alimentarla. Prima un sondino naso-faringeo, poi la sonda gastrica, completata dall’uso di una grossa siringa e l’istallazione di una guida centrale per l’idratazione mediante siero. E gli orari, la stanchezza crescente nei mesi successivi, il bisogno sempre presente di un sonno riparatore. È poi i medici sempre meno solleciti, dopo le prime visite, una volta resisi conto della gravità della malattia.
Ma io la volevo accanto a me ancora per un po’ di tempo, sempre un po’ di tempo ancora. E, visto che non poteva parlare, volevo che almeno accennasse un sorriso. È pretendevo che le assistanti la facessero sorridere, anche se per poco. Era l’unico indizio che mi faceva pensare, che mi faceva sperare che fosse d’accordo con me, per vivere ancora un po’.
E la lotta era continua, giorno dopo giorno. Lotta contro chi? Contro cosa?
Lotta inutile. Però alcune volte lei sorrideva.
Mi hanno scritto che ciò che si fà per amore è sempre al di là del bene e del male. Chissá perché si cita con tanta frequenza Nietzsche, quando i suoi scritti sono cosí pesanti da leggere. Ma i titoli dei suoi libri sono splendidi: La gaia scienza, Così parló Zaratustra, Il crepuscolo degli idoli, Ecce homo.
Poesia, filosofia e speranza
Si può scrivere ciò che si vuole ma alla fine dello scritto ci deve essere sempre accennata una speranza. Nessuno vuole leggere scritti che non suscitino speranza. Anche i romanzi gialli, con il morto, suscitano speranza, perché l’assassino è sempre punito.
I canti di Leropardi sono poesia, pittura e musica, tutt’uno all’inizio, ma hanno sempre un finale amaro. Non c’è speranza.
Croce scrisse che la categoria poesia è una cosa e la categoria filosofia un’altra e che Leopardi le ha confuse.
Sarà… ma!
Intelligenza è capire
Sono passati piú di quattro milioni d’anni da quando l’ardipithecus ramidus visse in Etiopia e, forse, diede origine a discendenti che a loro volta diedero origine all’homo sapiens.Viene il mal di testa quando si cerca d’immaginare un tempo cosí lungo, ma tutto questo tempo è stato necessario per arrivare ad un umano con un po’ d’intelligenza e qualche sentimento, che lo differenzi da tutti gli altri animali
Ma forse non è così.
Alcuni anni fa camminavo fuori città per una passeggiata e, se possibile, per cacciare qualche animale con un fucile di piccolo calibro che portavo con me.Non incontrai selvaggina degna di questo nome. Solo alla fine, già sulla via del ritorno, due grossi uccelli volarono da un albero all’altro, sul bordo della strada.
Quando sparai, uno dei due cadde al suolo. L’altro fuggi, volando sino all’albero seguente, lontano una decina di metri. A questo punto si voltò verso di me e cominciò a gridare. Sembrava che protestasse con tutto il fiato che aveva. E man mano che avanzavo lui volava sull’albero seguente, allontanandosi e gridando sempre piú forte. Era disperato.
Non è questa intelligenza? Non è sentimento? Il povero uccello aveva capito che il suo compagno era morto e si ribellava e gridava. Era l’unica cosa che poteva fare. Non riesco a capire come Cartesio potesse affermare che il dolore, negli animali, non è vero dolore, ma solo un riflesso.
Sono stati necessari milioni di anni per l’uomo e sicuramente anche per quell’uccello, per arrivare all’intelligenza. E milioni di anni sono tanto, tanto tempo.Le matematiche che si usano per studiare il comportamento di particelle molto, ma molto piccole, oltre certe dimensioni, sembrano indicare che il tempo si confonde, a questo punto, con lo spazio. Chissá cosa significa. Forse, in queste dimensioni , milioni di anni non sono poi tanto tempo. Arrivati a questo punto meglio non pensare.
Io ho trascorso molto tempo della mia vita lavorativa a far calcoli con una calcolatrice manuale. Non c’era il PC ed ho passato altrettanto tempo a leggere. Ho osservato quanto appaiono semplici le cose che si sanno veramente. Tutto quanto è complicato e difficile da intendere ci dice che in realtà non conosciamo l’argomento. Sino a poco tempo fa si sorvolava su questo scrivendo in latino, per es.“vis vitalis” o “ipse dixit” o usando frasi fantasiose come “generazione spontanea”.
Ai noistri giorni il trucco non funziona piú.
Serenità
H. Hesse ha scritto un piccolo libro che narra la vita di Siddharta, un eremita che si incontra con il Budda, l’illuminato. Questi promette insegnargli cos’è il dolore e come evitare il dolore, ma Siddharta, anche lui illuminato, gli risponde che lui non cerca questo.
Lui cerca la verità.
Poi Siddharta scopre la vita mondana, che abbandona per vivere nuovamente da eremita presso un fiume, in cerca della verità. È l’unica verità che scopre è l’unità. L’unità del fiume, con le sue sorgenti tra le montagne, le acque correnti verso le pianure, la foce.E lui intende che c’è una unità del tutto. Ogni cosa fà parte di un tutto e anche l’uomo fà parte di un tutto.
Questa sembra essere la verità. Ma questa verità può dare la serenità ? L’uomo spera solo poter raggiungere la serenità. Ma è difficile.
Recentemente, Teresa di Calcutta rassicurava le sue consorelle dicendo loro che lei viveva serena e fiduciosa. Ma le lettere che scriveva al suo vescovo, rese note dopo la sua morte, e che lei non riuscì a far bruciare mentre era in vita, rivelano disperazione.
Perché Dio è silenzioso? E chiama Cristo “il grande assente”.
Dubbi…sempre dubbi!
Benedetto VI, visitando il campo di Auschwitz, ha esclamato: Signore… come hai potuto permettere questo?
Non dubbi ora, ma rimprovero.
Solo favole
Tutti gli organismi sopravvivono per merito dell’apoptosi. Le cellule vecchie e difettose ricevono l’ordine di morire e vengono sostituite da cellule giovani e sane.
L’organismo sopravvive , ma le singole cellule muoiono e sembrano non avere molta importanza. La stessa cosa avviene nell’ambito delle specie. La sopravvivenza degli individui sembra non avere importanza. È importante solo la sopravvivenza della specie. Ma poi, dopo un lungo tempo, anche le specie scompaiono.
Allora cos’è importante veramente?
La cellula, l’individuo, la specie sono parte di un tutto. Questo è importante. È questo che dice Siddharta? Se così, forse aveva ragione Budda ad insegnare cos’è il vero dolore e come evitarlo, perché è meglio evitarlo. Non possiamo far altro. E non si dovrebbe aver paura della morte e di un aldilà misterioso, che non è altro che il ritorno a quel tutto originario, che tanto spaventa l’uomo e forse anche ogni altro animale. È quello spavento ci induce ad accettare e dire di credere tante favole che , in fondo, sappiamo sono solo favole.
Bellissime favole quelle che gli antichi ebrei scrissero nei loro libri. Ma poi vennero i profeti , si organizzò una chiesa e la buracrazia, e tutto divenne un incubo per la vita quotidiana degli uomini. Dominare e non dare spiegazioni e serenità, divenne il fine.
“La cosa in sé”
Sant’Agostino, vescovo d’Ippona, nel Nord’ Africa, era un kantiano ante litteram.
Infatti mentre passeggiava sulla spiaggia, meditando sulla trinità, incontró un fanciullo che, con una conchiglia, secondo un quadro del Botticelli, raccoglieva acqua dal mare e la versava in un buco nella sabbia. Quando Agostino chiese cosa stesse facendo, rispose:
-Voglio mettere il mare in questo buco.
-È impossibile… esclamó Agostino.
-E perché allora tu vuoi intendere il mistero della trinità? E il fanciullo scomparve.
Anche Kant afferma l’impossibilità di conoscere la “cosa in sé”. Si puo conoscere solo come consentito dal modo di funzionare, dalla fisiologia del nostro cervello . Chissá quant’altre verità esistono nell’universo che noi non sappiamo, né possiamo immaginare. Un indizio ci è dato dalle radiazioni cosmiche che penetrano dappertutto, anche nelle rocce e che noi non sentiamo, né vediamo. Possiamo solo registrarle con apparati. E chissà quanti organi e quanti apparati ci mancano ancora per aver sentore di altre realtà. Che peccato non poter dormire per cent’anni e poi svegliarsi. Quante conoscenze nuove ci sarebbero!
“Il vecchio…e la guerra civile”
Oggi ho incontrato un conoscente. Un emigrato molto vecchio. Da giovane non era molto alto, ma ora è rimpicciolito. Ed ha saputo dire solo: Buon giorno! Come sta? È la salute? È pensare che era una testa matta, fuggito dall’Italia nell’immediato dopoguerra perché seguace di Mussolini durante la Repubblica di Salò. Molto giovane ed entusiasta del fascismo, lui e i suoi compagni. E quanto fervore, quanto amor di patria! Quanta ricerca d’avventure! Un vero guerriero. E che delusione, che dolore veder svanire i sogni, coltivati per tanti anni, d’un Duce guida, sempre vittorioso e d’una patria grande. Ora stava davanti a me, curvo e rimpicciolito, col passo esitante, incapace di sostenere una qualsiasi convesazione.
Questo è ciò che aspetta l’uomo alla fine della vita. E non è neppure il finale peggiore.
Gastronomia barbara
Sul finire della guerra, la seconda guerra mondiale, le truppe americane occuparono Fabriano, nelle Marche e, tra le altre cose, si fecero carico dell’ospedale.
Un giorno ero andato a trovar mio padre che lavorava nell’ospedale e, nei corridoi, vidi i carrelli nei quali venivano portati gli alimenti agli infermi. Che sorpresa! Nei piatti c’erano spaghetti, ma erano stracotti, come si poteva osservare guardando il loro spessore. Noi diciamo: colla per manifesti . E, a lato, una buona porzione di marmellata.
Spaghetti con la marmellata! Una cosa inaudita, mai vista. Duemila anni di tradizioni culinarie stravolti tanto irresponsabilmente! Ebbero un bel dire, i medici, che gli infermi hanno bisogno di calorie e che…
Per me, questa sí, era una cosa da eretici.
Recentemente ho ascoltato che un sud-americano voleva mangiare la pizza con il pane e che, non essendocene in casa, uscí per andare a comprarne. Come è possibile, io dico! Credo che la scomunica debba contemplare questi casi e solo questi. Non gli altri.
Pirandello
Che voglia di vivere si ha quando si esce da una grave malattia!
Anni fa, mi ammalai, mi internarono in una clinica, mi operarono. La guarigione fu lenta e difficoltosa. E un giorno la mia compagna portò una nipotina a visitarmi.
-Povero nonno, come è mal ridotto! Prima aveva una casa grande ed ora questa è piccola. Non ha neppure la cucina…esclamò la bambina.
Come cambia la realtà, cambiando il punto di vista. Per lei, importanti erano la casa grande e la cucina, non l’infermo, che stava meglio.
Pirandello, che affermava questo, all’inizio del secolo scorso, merita una maggiore considerazione. Bisogna rileggere: Così è (se vi pare).
Epigoni
Bisognerebbe studiare i sentimenti dei discendenti degli italiani che vivono in Argentina.
In alcuni casi si osservano grandi manifestazione d’amore per l’Italia. Altre volte un cupo risentimento, anche se raramente esteriorizzato.
È vero, i loro padri, i loro nonni furono obbligati ad emigrare. Lasciarono miseria e trovarono duro lavoro, nei vasti campi argentini. Alcuni sono riusciti ad emergere, molti no. Solo dopo una o due generazioni i discendenti si sono sistemati con un impiego, una professione o con una terra agricola. Ed i vecchi ne erano orgogliosi. Mio figlio, il dottore, era una frase che s’ascoltava spesso. L’Italia aveva abbandonato gli emigrati. Loro s’erano fatti strada da soli, in una forma o nell’altra. E i loro figli e nipoti si erano sistemati degnamente.
Ma figli e nipoti ricordano. E molti non amano che si rammenti loro l’origine…le radici. Dicono di capire quando si parla loro in italiano. Ma non è così. L’Italia, con i suoi millenni di civilizzazione, con la sua cultura irripetibile, che lascia stupefatti quando ci si avviciniamo ad essa, non ha saputo far sí che i suoi epigoni conservassero la lingua d’origine.
“L’uomo, la bestia…ed il mantello”
Noè, il patriarca, fu ben consigliato e piantò la vite. Fu mal consigliato e si ubriacò. Noè era solo, ubriaco e nudo come un verme, in una stanza. Due suoi figli presero un mantello e, camminando all’indietro per non vedere la nudità del genitore, lo raggiunsero e lo coprirono.
Si ha l’impressione, leggendo il sacro testo, che il male consistesse nella nudità dell’uomo piú che nella ubriachezza. Forse il vestito era, a quei tempi, ciò che rendeva più manifesta la differenza tra l’uomo, anche lui un animale, e la bestia.
Era l’evidenza della supremazia. Era l’evidenza dell’intelligenza.
“Perch’i’ no spero…”
Perch’i’ no spero di tornar giammai…
Neanch’io spero di tornar giammai a vivere quei giorni lieti, sereni: come quando c’eri tu…
Che differenza c’è tra un verso di Cavalcanti e quello di una canzone napoletana?
Cinquecento anni, sí, ma la stessa malinconia, la stessa voglia di piangere.
Fede ed economia
Riscaldamento globale, chiamano le irregolarità atmosferiche che stanno minacciando il mondo. E hanno dato un premio Nobel a un politico che fà propaganda per risparmiare energia e diminuire, solo diminuire, l’inquinamento. Case ecologiche, utilizzazione del vento e del sole, cattura dell’anidride carbonica e del metano, conservazione dei residui vegetali in superficie e tanti altri accorgimenti. Anche la semina diretta, in agricoltura, serve.
Non sarà questa una maniera di cambiare tutto, affinché tutto rimanga come prima, secondo una felice frase di Lampedusa?
È nessuno sembra accorgersi che il vero problema, quello di fondo, è un altro. Gli uomini che abitano questo nostro mondo sono ormai troppi. Settemila milioni sono molti. È tutti vogliono viver bene e, per ottenere benessere, causano molti danni. Contaminano la terra, l’aria e l’acqua.
Si può risparmiare energia e quindi petrolio, gas, carbone. Si può diminuire la contaminazione ma, in un prossimo futuro, aumenterà la popolazione. Aumenteranno i consumi, aumeterà di nuovo la contaminazione ed il problema sarà sempre piú grave
È un circolo vizioso dal quale non si esce, se non si delimita bene la causa. Ma di questa causa si evita parlare, per motivi di fede e d’economia. Le principali fedi predicano la riproduzione, ora, come nei millenni trascorsi, quando il mondo doveva ancora essere popolato dall’uomo.
Ed in economia ci si domanda come si potrà dar lavoro, aumentare le produzioni ed i profitti con una popolazione in diminuzione. Che bel dilemma!
Ma le autorità deviano l’attenzione sul riscaldamento globale e sul risparmio del petrolio. Tutte cose che non limitano la crescita della popolazione mondiale e quindi dei consumi, e non infastidiscono le autorità religiose.
C’è qualcosa, nelle leggi economiche attuali, che porta alla distruzione.
Cavalieri dell’aria
Hitler, un allievo di Mussolini, utilizzó la retorica ed il nazionalismo per ottenere il potere e porre ordine nel caos economico del dopoguerra, in Germania.
Ma c’è un fatto che raramente viene ricordato. Verso la fine della prima guerra mondiale, quando già tutti erano convinti della sconfitta, l’esercito tedesco era demoralizzato. Per conservarne il contollo, il comando degli imperi centrali ebbe una grande idea. Scelse, tra i militari, persone capaci di parlare, capaci di convincere con il loro carisma. Diventati bravi retori, avrebbero dovuto sollevare l’animo dei soldati. E si insegnò loro la retorica che, nell’antica Grecia ed a Roma, aveva dato tanti buoni risultati.
Ma tra loro c’era un certo Hitler che, dopo la disfatta, continuò ad ad arringare la gente, nelle piazze, nelle birrerie, nei bar. È la retorica ancora una volta diede risultati. Nacque un movimento, poi un partito che conquistò il potere. Seguì la guerra e la distruzione.
Tra i primi aderenti al movimento di Hitler c’erano molti militari ed anche un certo Goering che era stato il secondo del barone rosso , von Richthofen, l’ eroe della nascente aviazione, che tutto il mondo ammirò ed ammira ancor oggi. Un cavaliere dell’aria che, dopo aver abbattuto un aereo nemico, scese a terra e brindò con il vinto, rimasto in vita. Ed anche Goering fu un eroe, accettato come tale nel partito nazista, non piú ammirato dopo la seconda guerra mondiale.
Come è possibile che siffatti eroi cambino col tempo e le circostanze, sino a divenire nemici dell’umanità?
Sono scritti diversi da “Ricordi di un emigrato….” La sua opinione sarebbe di gran valore per me. Grazie
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Buongiorno, sono un’aspirante scrittrice (soprattutto di saggistica) e mi piacerebbe potermi iscrivere a questo blog per confrontarmi con gli altri autori e poter proporre anche la mia opera. E’ possibile?
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benvenuta, Liana.
facci sapere qualcosa di più di te.
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grazie per l’apprezzamento.
M. Fagioli
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Gent.ma Lucia Sallustio,
ho trovato per caso questo suo blog con la bella recensione alla mia silloge “L’anima e il lago”, di cui la ringrazio molto per l’interpretazione empatica dei miei versi. Ho visto che ha indicato gli URL dei siti in cui è pubblicata on line, tra cui il mio blog “La Grotta delle Viole” (nel Gargano).
http://www.literary.it/Autori/dati/busca_gernetti_giorgina/giorgina_busca_gernetti.html
Questo è l’URL che porta direttamente alla mia Homepage in “Literary”, dove è pubblicata, insieme a tutte le altre, la sua acuta recensione.
Grazie di nuovo, complimenti per la sua attività letteraria e cordiali saluti
Giorgina Busca Gernetti
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