Fuori dalla finestrella della cella la neve fioccava. Il cielo era stranamente terso ora che si stava sbarazzando delle nubi. In lontananza le cime erano di nuovo innevate e i campi si distinguevano appena sotto un biancore che ammantava tutto, mescolando cielo e terra. Lo scenario non era granché diverso da quello del suo paese. Un’eco di cornamuse si avvicinava in un’atmosfera di sospensione. Oltre la grata,però, Mirada non scorse nessuno. Fra le comunità cattoliche del suo popolo, si conservavano le stesse usanze, con la stessa identica suggestività. Quasi lo sentiva l’odore penetrante delle spezie, dello zenzero, della cannella e dei chiodi di garofano che donavano un aroma caratteristico alla dolcezza delle mandorle e dei fichi. I dolci di nonna Aminah erano prelibati e allietavano le tavole di tutte le case del paese, sembrava che solo lei serbasse il segreto di ricette millenarie custodite chissà per quale mandato. Nonna Aminah, un trionfo di dolcezza e robustezza, un arcano della femminilità vittoriosa, la sua pena del contrappasso. Di rimando, percepiva l’immagine del proprio avvilimento fisico e morale.
L’odore delle spezie si fece persistente e vicino, come se dall’altra parte sua nonna stesse sfornando dolcetti friabili e gustosi che si scioglievano nella bocca come fiocchi di neve. Era di nuovo Natale, la gente tornava ad augurarsi serenità e bellezza, a fingere di dimenticare la vergogna di brutture e violenze, arrotondava labbra avide al sorriso, stendeva la mano destra in segno d’amicizia e amore. Di questo era capace l’uomo, quello che da sempre immolava e torturava l’innocente, salvo poi fingere di pentirsi e costruirsi nuove identità. Tempo di riflessioni, spesso amare, di bilanci e di nostalgia, più di rado tempo per la vergogna, quella era sempre degli altri.
“Sorella Benedetta, sono arrivate le bambine. L’aspettano nel parlatorio” la informò una voce giovane appena sussurrata bussando alla porta.
“Grazie, sorella. Dica che arrivo subito.”
Si diresse vero l’armadio di castagno scuro che troneggiava su di un lato della minuscola cella da chissà quanti secoli e che chissà quali terribili segreti aveva custodito prima del suo, e tirò fuori i vestitini di velluto, uno blu e uno marrone, che aveva preparato per Emma e Paoletta. Sarebbe stata una sorpresa e l’avrebbe resa ancora più gradita con i dolci che suora Gina stava alacremente preparando da giorni. Avvolse i due vestitini in carta regalo, avendo cura che non rimanessero false pieghe impresse nella stoffa tanto morbida quanto delicata, e completò con due belle coccarde in tinta per non sbagliarsi: la blu per Emma e la marrone con spicchi dorati per Paoletta.
Uscendo richiuse la porta con gentilezza, era sacrilegio infrangere il silenzio in convento, non solo per regola benedettina ma per una sua ferrea volontà. Il silenzio era sempre stato l’antidoto al peccato che non riusciva a rappresentarsi meglio alla mente che con l’idea del frastuono e del caos. Il silenzio era bellezza e perfezione e raggiungerlo non era così facile come pensavano i più. Povere piccole, anche loro un altro Natale senza il papà!
Man mano che si affrettava in cucina attraversando con passo leggero e capo chino e pensieroso i corridoi in penombra, l’aria si riempiva della dolce fragranza delle numerose infornate che avevano impegnato suora Gina e le consorelle aiutanti tutto il mese di dicembre. Le giunse un cicaleccio appena percettibile, risatine timide accennate, un frusciare di vesti. C’era aria di festa in cucina e la vista dei dolci cotti disposti su vassoi d’argento coperti di eteree trine ad orlare il candido lino e di quelli ancora da passare nel forno che attendevano in bell’ordine sui tavolieri di legno le comunicò un sentimento inaspettato di gioia e convivialità, smarrito nei meandri della memoria. L’odore le penetrò l’animo, le accese ricordi di bambina, la flagellò coi momenti impressi a marchio di fuoco e nella carne dell’umana perversione. Non riusciva ad essere felice un solo attimo senza oscurarsi immediatamente per quell’ombra che le gravava addosso, che la permeava, per l’odio che non si acchetava ancora, nemmeno nel silenzio e nella preghiera. Le campane che suonavano pigre i dodici rintocchi del mezzogiorno, la distolsero per un momento dall’ossessione: le bambine non potevano aspettare ancora. L’attesa snerva e indebolisce, lei lo sapeva bene. Lo aveva appreso nell’altra vita, quella per la quale doveva pagare ed espiare ora.
“Sorella Benedetta,” la scosse gentilmente per un braccio Ave, la novizia brasiliana, porgendole i due vassoi colmi di dolcetti natalizi “ pensa che possano bastare per le due piccoline?”
“Sì, certo. Va bene così. Saranno felici, almeno per un giorno, loro e la loro mamma. Graziella si merita un po’ di serenità anche lei, la vita non è solo lutto e le bambine hanno bisogno del calore del suo sorriso per crescere nell’incanto del Creato e fugare le ombre che rattristano la Vita.”
Si segnarono tutte il capo frettolosamente, a suggellare le parole di suor Benedetta che nell’altra vita s’era chiamata Mirada ed era stata derisoriamente soprannominata la modella albanese.