Hhttp://www.youtube.com/watch?v=AVNoeRdlVL0

Ho voglia di scrivere. Scrivere mi fa pensare e pensare mi fa sognare. Ma non ce la faccio, mi sento debole, sfiaccata. Resterò a guardare seduta alla finestra dell’abbaino. Da questa altezza il mondo si rimpiccolisce, prende le sue distanze. Io, ho sempre cercato di non farmi influenzare dalla gente, dai luoghi comuni, dai pettegolezzi, aborti dell’invidia e della noia. Ho ben altro da pensare e tutto un mondo da disegnarmi, spazi da ristrutturare o edificare dal nulla. Oggi resterò a guardare. Quassù i rumori della strada arrivano attutiti, i passi della gente sgravati di echi anche quando, in altri momenti dell’anno, si allungano frenetici scavalcando i passi lenti degli anziani o quelli pigri di chi non ha nulla da fare.

Mi tornano in mente versi di una poesia scritta in uno degli intervalli dei nostri incontri. Me ne ricordo ancora il titolo Uno di due: assolo. Pian piano si affacciano i versi, non li ho mai dimenticati. Scrivo spesso poesie, ma non ho mai avuto l’abitudine di tenerle a mente. Non tengo a mente i versi dei poeti, figuriamoci se mi prendo la briga di ricordare i miei. Ma quelli erano fissi dentro di me e me li ripetevo ogni volta che partivi. Dialogavo con me stessa.  Split, e  mi dividevo in

due per trovare compagnia ad una solitudine che mi pesava anche se non l’avrei ammesso mai.

Strana solitudine fende  l’aria, il mio passo solerte sul selciato non risuona dell’eco prolungata, del molleggiare dolce del corpo tuo. Indaffarata turbino nel mondo, gravida d’incombenze, ricambio sorrisi e stringo mani,  divincolandomi tra vecchie conoscenze.

Mi manca il tuo ascoltare paziente, il tuo sparire inaspettato, la falcata del tuo passo quando torni. Mi manca il tuo sorridere giocoso, il tuo scherno a volte irrispettoso. L’affanno mio non condiviso è solo.

Forse non era proprio così in origine, il mio sonetto. Lo cerco  in uno dei miei taccuini stipati nei cassetti chiusi della libreria. Me lo ricordo, era  un taccuino nero con l’elastico rosso. I margini dei fogli dorati sono un po’ sbiaditi. Un regalo prezioso delle zie, quasi un breviario. sapevano della mia passione di scrivere e me ne portavano sempre dalle loro gite con il gruppo della chiesa. Eccolo qua, trovato. C’è pure la data e l’ora, non mancavo mai di appuntarmele. Leggere il tempo significa dare contorni squadrati ai ricordi, eliminare le sfumature che ingannano l’occhio sognante. 23 agosto, 1974. Alle ore 13.30. Un giorno d’estate, di ferie. Ero sola  a casa, stranamente pigra a trastullarmi negli stanzoni vuoti. Le zie dovevano essere a Montecatini Terme, con le amiche, in vacanza. Conoscevo Gianni da un anno.

Uno di due (assolo)

Strana solitudine fende  l’aria

Il mio passo solerte sul selciato

Non risuona dell’eco prolungata

Del molleggiare dolce del corpo tuo.

Indaffarata turbino nel mondo

di incombenze ingravidata,

sorrisi e mani strette e

mi divincolo tra vecchie conoscenze.

Eppure mi manca il tuo ascoltare

Paziente, il tuo sparire inaspettato,

La falcata del tuo passo quando torni.

Mi manca il tuo sorridere giocoso

Il tuo scherno a volte irrispettoso

L’affanno mio non condiviso è solo.

23 agosto, 1974.

Alle ore 13.30.

M. L.

Sono diverse le parole disposte in fila su di un foglio, senza alcuna simmetria, senza ritmo. Perdono musicalità. La poesia è musica, la prosa è racconto. Racconta chi ha da raccontare, chi non vuole dimenticare, chi vuole prolungare la vita attraverso chi legge o chi ascolta.  Non sono fatta per i lunghi racconti, sono fatta per le vibrazioni della buona musica e della poesia, per l’annotazione dei pensieri sparsi. Niente aforismi, per carità. Sono solo presunzioni o astrazioni, tentativi di assolutizzare il magma slittante del quotidiano.

Aggiunte e ritocchi al racconto Rewind: per una che non sognava l’amore


Avevo voglia di scrivere. Niente di che, pensieri. Fermi lì, sull’avorio dei miei quadernetti, mi sembrano prendere consistenza. Se continuano a svolazzarmi in testa, non riesco a darci peso.

Oggi, e mi  fermo a guardare i riccioli della o e delle due g. La calligrafia che mi ha insegnato la maestra alle elementari, da sempre motivo di orgoglio per eleganza e nitore, appare sgranata e indecisa. Ondeggia incerta sul foglio. La penna mi pesava in maniera sproporzionata, mentre scrivevo. Strideva con il pensiero che attendeva, come un viaggiatore nella sala d’attesa di una stazione, di fare accomodare le parole vicine, le une alle altre.

Oggi, mi sento un pochino più energica ho scritto. Ho riletto, tutto d’un fiato, per accertarmi che il pensiero non fosse partito per disperdersi per sempre. Amo sentire il suono dei miei pensieri. La mia voce che rilegge ne conferma l’esistenza e, di rimando, conferma la mia. Sono viva, di nuovo viva e questa sensazione di felicità si traduce in una folata di pensieri che premono sulle tempie come contro sbarre di prigioni e vogliono uscire, riversarsi sulla carta, iniziare il viaggio desiderato. Scrivo. Mi sono presa una bella influenza, quest’anno. Io, che mi sono sempre vantata di non ammalarmi facilmente. Si ammala chi ha voglia di ammalarsi, avevo l’abitudine di sentenziare da giovane. E, allora, secondo questa mia teoria, che poi deve avere fondamenti psicologici, la mia malattia, febbre e sintomatologia, cure e soldi per l’infermiera, devo essermela tirata addosso io?

No, è che le verità hanno le loro sfaccettature e ognuno si ritaglia la propria secondo l’età, lo stato d’animo, il momento.

Ho scritto solo poche righe, eppure sono di nuovo stanca. La mano trema un po’, la mia bella mano d’artista, come diceva Gianni, prendendomela fra le sue. Ridevo, felice. Gianni aveva mani grosse, tozze, stranamente callose per età e mestiere.

“Sono mani da contadino” mi confidò una sera, con aria persa nel vuoto. Pensava e raccontava della sua infanzia difficile con il nonno a strappare alla terra quel poco che non bastava mai a niente.  E per arrotondare raccoglievano stracci e robe vecchie col carretto e poi andavano a rivendere tutto al macero. Era incominciata così la loro attività di venditori di biancheria, passando dalla terra, al riciclo, al macero. Con le loro mani sempre ingombre di pesi. Lavori duri, pesanti.

“Calli e geloni, tagli e pustole non fanno mica mani gentili! Eccola qui disegnata la mia vita, tutta nelle pieghe delle mie mani.”

Guardavo la mia tra le sue, esile, diafana, vi si perdeva.  Proprio vero, mani e occhi ti dicono tutto di una persona.  Guardo le mie mani, sono mani ancora belle, fini, ma tremano e sono diventate più scure, con qualche macchiolina di troppo. All’inizio contrastavo il loro insorgere con creme costose che compravo in farmacia. Mi piace la sfida  e volevo sfidare il fluire del tempo e la sua mania di giocare alle sottrazioni. Giorno dopo l’altro, il tempo ti toglie tutto ciò che ami e ti regala ciò che non vuoi. Mi stava già togliendo il fulgore della capigliatura, folta e scura e mi aggiungeva macchioline marroncine sul viso e sulle estremità.  

 

 

Scritto e riletto appena. Domani rivedrò per le limature.

L.S.

“Taita”: racconto o romanzo?


Vulcani dell'Ecuador

COME UN’IGUANA

 

“Taita, vuoi l’ovetto a colazione? Quasi un paio di dozzine di uova, mi hanno fatto oggi tra papere e galline. Guarda che bello l’uovo della Briosa, ne vale almeno tre di gallina. Ah, ho appena sfornato il pane. Ne vuoi una buona fetta fragrante?”
Sempre premurosa mia suocera, ma quanto parla! Oggi sono sveglia dalle cinque e non per i primi raggi che si sono infiltrati come ladri di sogni nella stanza da letto, ma per i rumori che la bella Nina, come chiamano tutti mia suocera, non si preoccupava nemmeno di evitare. Armeggiava tra cucina e patio e, visto che le fa male la bocca quando è serrata troppo a lungo, s’è messa a canticchiare qualche vecchia melodia e a parlare con gli animali.
Non riuscivo a riprendere sonno dal nervoso e dalla sensazione dolorosa di un cerchio che stringeva alla testa. Forse ha ragione lei quando mi rimprovera di usare troppo il computer. Mi dice che, prima o poi, mi ricovereranno in crisi da dipendenza. Ieri notte ho fatto l’una e dopo ho stentato ad addormentarmi. Avevo strani tic, l’occhio sinistro tremolante e un magone dentro, incontrollabile. Avrei pianto volentieri, ma non riesco più a farlo come un tempo. Ho già versato troppe lacrime e, ormai, la sofferenza s’è aggrumata tutta, è un nodulo acquattato da qualche parte dentro di me, che mi consuma e riesco a lenire solo davanti allo schermo del portatile.
Quando mi sono svegliata, ho sentito il freddo invadermi di nuovo le membra, si irradiava dalla punta del naso fin giù, alle estremità dei piedi. Allora, mi sono infilata tutta sotto il piumone, come una bambina che vuole nascondersi allo sguardo dei genitori che la chiamano e la cercano dappertutto. Così facevo io, m’infilavo sotto la coperta di lana merinos, e sentivo accanto a me Francisca, mia sorella maggiore, che soffocava le risa per non farsi sentire da papà e mamma. Loro, continuavano a urlarci che erano già le quattro e mezza del mattino e dovevamo sbrigarci per andare ad allestire la bancarella al Mercato Mayorista di Quito.
Al mio fianco, invece, stamattina c’era Aldo. Russava, come ogni notte. Ora che ne sto parlando con sua madre, lei sorride e, con un pizzico d’orgoglio che non so dove trovi, mi dice assomiglia tutto a su’ babbo. Per consolarmi, aggiunge che anche lei ne ha trascorse di notti insonni, ma non lo ha fatto mai pesare a suo marito, ché poi gli uomini se la prendono a male e, per di più, tocca alla donna custodire l’unione del matrimonio con grappoli di pazienza.
“Io, questa pazienza, invece, non ce l’ho” le rispondo. “E poi un freddo terribile mi paralizza e, se non sono in movimento, mi agghiaccia tutta e mi rende ancora più impaziente.”
“L’è che sei sempre seduta lì davanti al computer, quando non lavori” mi fa, di rimando.
Ieri l’ho sentita. Chiedeva a una delle sue ospiti del B&B Bella Nina, nel centro storico di Lucca, se ci potevano essere ripercussioni sulla mia sanità fisica e mentale. Non l’ho mai sentita parlare con gli ospiti in toni così preoccupati, poverina. Dall’altra parte del muro, mentre rifacevo la stanza azzurra, mi è venuto spontaneo guardarmi allo specchio. Ho fatto un passo indietro. Da un po’ di tempo ho gli occhi cerchiati di viola, il viso troppo magro, patito. Forse per questo la bella Nina mi perseguita con la ricca cucina della Garfagnana, i piatti sani e succulenti della sua mamma e, prima di lei, della sua nonna. Ingredienti biologici della masseria di campagna dove viviamo insieme, i miei suoceri e i due figli, Paolo e Aldo, ciascuno a curarsi i drammi della propria famiglia sbrindellata in un’atmosfera di accogliente allegria. Tutto falso. La verità, invece, me l’ha gettata in faccia lo specchio. Consumata dal dolore, navigo tra onde virtuali. Mail e facebook leniscono le ferite, le foto mi restituiscono i colori della mia terra, il sorriso di Carlos mi ossigena per un po’. M’illudo, tra luoghi e personaggi della mia fantasia o repertori dell’anima, che presto tutto cambierà.
Sono sempre stata bella. Ho preso dalla mamma i lineamenti fini moreschi, le curve sinuose, mentre ho ereditato da papà la forma degli occhi e la statura minuta degli indios. Francisca, invece, era molto più alta di me. Statuaria come la nonna materna della quale portava il nome. Certe volte mi dico che se non fosse stata così bella, così procace, così sensuale, così colta, lei che parlava quattro lingue con invidiabile fluidità, io ora non sarei qui, a patire tutte le sfumature del freddo, nel corpo e nell’anima. Ci sono momenti in cui sragiono. Poi, per amore delle bambine di Francisca, torno a essere la donna assennata di sempre.
Questo è compito di Taita che è più calma e obbediente, mi incoraggiava la mamma con un sorriso, quando voleva che mi recassi alla fontana del mercato a prendere l’acqua per lavare le verdure alle clienti più sofisticate. Francisca s’ingelosiva e mi seguiva salterellandomi attorno. Mi spintonava e, per farmi scoppiare a ridere e lasciarmi sfuggire di mano la tanica colma, mi raccontava storie ridicole. Lo faceva apposta, era dispettosa ma ci adoravamo. Siamo cresciute, ci siamo raccontate piccoli segreti di donne e poi ci siamo ricercate ciascuna la propria indipendenza. Io facevo la commessa nel negozio di Carlos, Francisca la guida turistica nell’agenzia viaggi di Gigi, lucchese di nascita ma sposato con un’ecuadoregna a Quito. Si sono innamorati e hanno lasciato l’Ecuador per venirsene a vivere a Lucca.

“Taita, ma mi ascolti? Che ne faccio dell’ovetto? A frittata o bello alla coque. Mangia, che metti un po’ di colorito, bimba mia.”
Non ho voglia di niente, a quest’ora del mattino poi! Non sono mai stata una mangiona e lo si vede dal fisico. Mi nutro di poesia, di ricordi, di emozioni, tanto più ora che mi mancano i colori, gli odori, il caldo umido della mia terra. Li ritrovo accendendo il computer, solo così posso rimediare al grigio che il cielo mi rimanda da troppi giorni, oltre le finestre di queste stanze. Un grigio ora cupo, ora sfumato del bianco delle nuvole. Plumbeo e greve. Chiaro e evanescente. Ma sempre tetro e malinconico. Il grigio è per me il colore della mancanza delle persone che più ho amato. Il senso dell’assenza non è sempre uguale a se stesso. Fa meno male quando sai che è assenza momentanea, attesa di ricongiungersi in un abbraccio che può restituirti la felicità.
Quando mia sorella partì, inseguendo l’amore e forse un po’ la vanità, sentii una forte stretta al cuore. Pioveva a dirotto, quel giorno. Una pioggia estiva violenta che caricava gli animi di elettricità e le narici di bosco e azoto. Per noi che eravamo abituati al clima amazzonico, la pioggia non era un intralcio alla routine, ma la benedizione a una terra paradisiaca, un trionfo di colori, di specie rare. In Ecuador la natura si diverte a mescolare tutto come un abile giocatore di carte. L’iguana assume colori variopinti per camuffarsi meglio, i fucsia e gli arancione dei fiori, il verde delle foglie, i bruni della terra.
Come un’iguana mi coloro del grigio della malinconia, del pallore delle nuvole che rende spento e livido il mio antico colorito olivastro di cui andavo fiera. Mi acquatto con occhi sporgenti puntati tutt’intorno, divoro sensazioni. Francisca mi manca e so che, questa volta, è andata via per sempre. Quando lasciò l’Ecuador sapevo che l’avrei rivista prima o poi. E infatti mi misi a lavorare di più per pagarmi il biglietto per l’Italia. Mi sarei ripagata quello di ritorno con il lavoro stagionale che mia sorella era riuscita a procurarmi al B&B della signora Nina. Mezza giornata al mattino, se necessario qualche straordinario fino alle due o nel pomeriggio, e tutto il resto della giornata libera di scorazzare in città e dintorni come una turista o in giro per compere. Eravamo tornate a essere inseparabili, Taita, Francisca e le sue tre bambine meravigliose che ci tenevano sempre impegnate tra scuola, giochi e cucina.
“Dai, zia Taita. Raccontaci ancora la storia dei due vulcani,Taita e Mama. E cosa ha fatto il vulcano Taita, allora?” Ero la loro cantastorie. Quando nonna raccontava, io facevo proprio come loro. Mi sedevo buona buona per terra, sgranavo gli occhi o mi portavo le mani sulla bocca con terrore quando mi raccontava la leggenda della dama con il lungo velo nero. Francisca, invece, preferiva aiutare la mamma in cucina, tanto che, per scherzare, la chiamavo Chicarron, come il pollo fritto che adorava.
Unico neo di quei giorni felici era Aldo, il secondogenito della signora Nina, che mi aveva messo gli occhi addosso e mi faceva una corte spietata. Ma la felicità rende spavaldi e io ci ridevo sopra, mica ero matta a mettermi con uno che aveva quasi venti anni più di me, bruttino, tarchiato e tirchio di parole. Io avevo Carlos che mi aspettava a Quito, così bello che, quando ce ne andavamo in giro in città, le donne se lo divoravano con gli occhi.
Dovevo tornare io a casa e, invece, Francisca fu presa dalla nostalgia.
“Taita, non so come spiegarmi. Ho qui dentro qualcosa che preme e mi leva il respiro. Mi mancano papà e mamma, i cugini, i colori delle nostre città, il clima, gli odori intensi e profumati dei frutti tropicali, i gusti forti e decisi della nostra cucina. Come se mancasse parte di me. Ho convinto Gigi a partire, sa che tu resterai qua con le bambine, non possono perdere la scuola. Ti metterai un po’ di soldi da parte e quando torni sposi Carlos.”
Avrei dovuto dirle di no, ma nonna Francisca diceva sempre che nessuno può fermare il destino: vaga giorni e notti e poi decide dove fermarsi. Quella sera decise di fermarsi sulla strada del loro ritorno dall’aeroporto di Pisa. Per farci una sorpresa Gigi e Francisca erano tornati in Italia con mamma e papà. Pioveva a dirotto anche quella sera, il cielo era di un grigio lugubre e sfiorava il nero. Morirono tutti in uno scontro frontale. Ora che so che non potrò rivederli mai più, posso fare la differenza: il senso della mancanza è un macigno.
“Vai a svegliare le bambine, Taita, così si lavano e fanno colazione. Accompagniamo loro a scuola, Robert al liceo e si va tutti al B&B. Arrivano ospiti stasera. Torna Vito, l’americano. Te lo ricordi dallo scorso anno?”
Parla, parla sempre la signora Nina. Una mitragliatrice puntata. Ma, tante volte, mi dico che senza di lei non ce l’avrei fatta a superare il dolore, a salvare tre bambine dall’orfanotrofio. Ci ha accolti tutti, nella sua masseria. Ora ci sono anche Paolo, il primogenito, e suo figlio Robert di diciotto anni. Se ne sono tornati dall’America dopo l’incredibile tragedia. Sua moglie si è suicidata quando il figlio di ventuno anni è morto di leucemia e a Robert hanno diagnosticato la stessa malattia, un anno fa. E ora la bella Nina s’ubriaca di lavoro per non pensare alle disgrazie. Basta a pensarci sopra. Non stiamo lì a chiamarcele, le disgrazie. Si vive alla giornata. Guardate che buon buccellato m’hanno preparato stamani, bello profumato d’uvetta. Fa ancora progetti con suo marito, cucina per la famiglia che si è allargata, cura instancabile e sorridente ospiti paganti e familiari naturali e acquisiti. La parola é il suo rifugio, la sua salvezza, così come quella scritta lo è per me, quando do vita alle mie storie. Internet mi surroga immagini e colori, come fa la sua bella terra toscana con lei, la terra alla quale mi sono inchiodata sposando un uomo che non amo. Mi conforta una foto, un fotomontaggio, dove indosso il mio abito da sposa in seta avorio, ho i capelli raccolti in uno chignon e roselline bianche e fiori d’arancio in un mazzetto. Mi sorride un uomo alto e snello che mi cinge la vita curvandosi affettuosamente su di me. Occhi che accarezzano l’animo. Carlos. Ho sostituito la sua foto a quella di Aldo, stridono i colori accesi dei suoi vestiti e lo sfondo variopinto con il candore dell’abito da sposa. La foto risale a prima che partissi per l’Italia. Eravamo in vacanza.

La torre dell’orologio, nella piazza del Mercato Vecchio, suona le due del pomeriggio. Ho finito di riordinare le stanze, ho steso lenzuola e asciugamani sul terrazzo, lavato i bagni e rimesso la biancheria fresca e profumata. Dispongo con cura saponette e block-notes nelle stanze. Lascio un bouquet di fiori di campo e un vassoio di frutta mista, tropicale e italiana, per la coppia di sposi che arriverà in serata. Aldo è tornato in masseria. Domani Robert farà la tac e Aldo accompagnerà fratello e nipote in ospedale. Io resto a Lucca, con la scusa degli sposi che arriveranno tardi. Mi riscalderò nel mio Ecuador virtuale. Accendo il PC e controllo la posta. Carlos mi ha risposto. Clicco i tasti con un’ avidità di leggere che mi fa stare molto male. Il computer s’inceppa. Lo riavvio. Sempre così, quando si ha fretta. Mi trema di nuovo l’occhio e mi sento soffocare. Eccolo, è lì, mi chiama amore. Stringo la copia della foto del nostro matrimonio di fantasia, lo bacio. Lui sorride. Gli parlo nella mia lingua. Sono anch’io una mitraglia, come la bella Nina. Riapro il file del mio romanzo e riprendo il filo di ieri. Mail dopo mail, ognuna un nuovo capitolo, passerà il tempo. Le bambine cresceranno e non avranno più bisogno delle mie storie. Tanto c’è la signora Nina che racconta le sue leggende della Garfagnana, della triste pastorella che cerca l’innamorato guardando il mare e dell’Uomo morto che si sacrifica per amor suo. Ma per me arriverà il giorno in cui tornerò a Quito dal mi amor. Sento che è solo un’assenza temporanea. E quel giorno al centro dello schermo del PC si leggerà la parola Fine. Come in un romanzo.

racconto di Lucia Sallustio

Estate e un personaggio femminile di un possibile romanzo


Ho aggiunto un pensiero al racconto “Rewind”. Breve, ma abbastanza per continuare a raccontare di Maria Luisa, un personaggio d’altri tempi e moderno insieme che mi affascina.  Quante donne ingegnere c’erano negli anni ’70? E come si sposavano in una donna di quei tempi spirito pragmatico e l’innegabile romanticismo che ogni donna, al di là dei tempi, si porta dentro in ogni particella del suo essere? E, infatti, il sottotitolo del racconto, non a caso, è : per me che non sognavo l’amore. E’ mai possibile, umano, non sognare l’amore? Figuriamoci per una come Maria Luisa, ce l’ha solo nel nome il bisogno di sogno e d’amore.

Fatemi sapere se vale la pena continuare. Se avete idee, richieste, suggerimenti ditemelo pure. Buona estate di pensiero e in-azione.

C’è qualcosa di romantico nell’impigrirsi d’estate al calore dell’aria che fonde il pensiero. Intorno si spande il silenzio e ho l’impressione che la gente rimasta in città si sforzi a tenere basso il volume della propria voce. Ogni tanto arriva un urlo di madre da lontano, seguito dallo schiocco di una mano su di un viso e da un pianto di un bambino. Compresso pure il pianto, sommesso, come se si vergognasse di farsi sentire dal mondo sonnecchiante.

C’è qualcosa di sacro nel paesaggio d’estate, rarefatto sotto il sole e sfocato dal bollore che evapora. Sfugge davanti agli occhi l’ossessione mercantile dei giorni del resto dell’anno. Una tregua dal daffare, dal commercio d’ogni cosa, il tempo di ricaricarsi con altri pensieri, sogni fatti e rifatti e ancora in cantiere.

In questa pigrizia del corpo la mia mente vola e insegue immagini di realtà possibili. Sono certa che ne raggiungerò alcune ma so anche che non è la vittoria che mi esalta, se non per il tempo che basta a metabolizzarla. M’interessa il senso della sconfitta, foraggio per nuove galoppate verso destinazioni più complicate.

L.S.

Riflessione ferragostana


Dietro cortine di merletto

 

 

 

Dietro il riflesso della luna

sulla finestra chiusa dirimpetto

il buio divora un’anima sola.

 

Dietro una scintilla pulsante

Sulla carcassa di una casa

Si spegne un pensiero morente.

 

Oltre il vociare della strada

Si posa l’assordante silenzio

E null’altro ode che se stesso.

 

Oltre la linea dei panni stesi

cenci di anime irrigidite

si rattrappiscono ai venti ostili.

 

Dietro l’animarsi del giorno

Si celano i segreti della notte

Si rintanano in spesse pareti.

 

Resta il rintocco della campana

Sospeso nell’aria secolare

Ignorato da noia e indifferenza.

 

Dietro schermi di merletto antico

si snodano storie irripetibili

trascritte in papiri arsi dalla vita.

Di Lucia Sallustio

10 agosto, 2012


NOTTE DI SAN LORENZO

Sto
Quaggiù a guardarti
Oceano capovolto
Squarciato da lucciole d’oro.
Ho
Lacerazioni d’ansia
A trafiggermi dentro
mentre lancio ad Oriente
Girandola di speranza
Incredula che s’avveri.
Però
Una luce pulsante
Disegna una curva
In libera caduta
Dritta verso me.
Dietro di lei
Nero assoluto
Dentro di me
Luce ora splende.
So
Ch’è notte di desideri
E d’impossibili realtà
Ma
quella stella cadente
gravida della mia speme di pace
in questa valle sfigurata da Caino
restituisce fiducia in Abele.
Per questo in attesa me ne
Sto.

dalla Silloge inedita “A TU PER TU” di Lucia Sallustio

Ricordi, ma saranno veri?


Questo il ricordo d’infanzia che ho spedito a Giulio Mozzi per partecipare all’iniziativa “Il Ricordo d’infanzia: un libro da fare”

http://vibrisse.wordpress.com/2012/07/12/il-ricordo-dinfanzia-un-libro-da-fare/

7 luglio 1968- La bambina della drogheria

La guardo fisso, armeggia dietro il bancone. Una bambina come me, stessi capelli ricciolini e crespi. I suoi sono rossi e rosse anche le macchioline sul viso. Sembra triste. Nonna e mamma dicono che il rosso è il colore del Diavolo e delle persone cattive.

“Che vuoi, bambina?”- mi chiede acida la signora Ninella. È la proprietaria della drogheria. “Un chilo di riso, mezzo di lenticchie e… il resto di pesciolini di liquirizia.”

Le porgo distrattamente duecento lire. La bambina mi fa un sorriso malizioso, forse vuole giocare con me. Non sembra cattiva, anche se ieri a casa parlavano di lei sottovoce.

“Gina è adottata?  Che significa, mamma?” Avevo ascoltato tutto, io. Così, mi è venuta la curiosità di capire quale differenza c’è tra i figli veri delle mamme e papà e i figli adottati. Dove li fanno? Guardo e guardo,  ma giuro che non trovo nulla di strano in lei!

di Lucia Sallustio