Leggere Paola Calvetti


calvetti_gli_innocenti5E’ accaduto di nuovo con l’ultimo romanzo di Paola Calvetti, “Gli innocenti”.  Leggere Paola Calvetti equivale per me a immergermi in una bolla di sospensione, un luogo dove il tempo rallenta o incalza ma ti trattiene da tutti i lati, ti intrappola in un presente che non ti appartiene per condividerlo con i suoi personaggi. In questa sospensione vivi dei loro respiri, godi dei loro amori, soffri delle loro sofferenze. Nella mente di te lettore crescono le storie d’amore che Paola Calvetti sa creare con dolcezza e  ritmo lento, coltivandole alla maniera originaria del genere romanzo con lettere dense di sentimento, di parole non dette, di rivelazioni decisive.

Jacopo e Dasha, primo violino e violoncellista, separati da età, nazionalità, storie familiari diverse, convergono verso una vita a due fatta d’incanto e innamoramento ma pronta a frantumarsi a causa di egoismi e, soprattutto, delle ombre di vite passate che troppe e profonde ferite non rimarginate hanno inferto ad entrambi.

La narrazione rimanda ad immagini vivide ed emozionanti, pregne di storia e umanità,  dalla ruota degli esposti nell’antico Spedale degli Innocenti di Firenze dove la storia di Jacopo ha avuto inizio, all’ austero Conservatorio di Tirana dove la carriera musicale di  Dasha segna la sua partenza. Passano, poi, davanti agli occhi le immagini di una nave che approda nel porto di Brindisi nell’indimenticabile 7 marzo 1991 con un carico umano di profughi che lascia tutti sconcertati; di una fila di scarpine da neonato allineate sul ripiano di un mobile da Flora, madre adottiva di Jacopo che, dalla presenza di un bambino, non riesce a trarre la necessaria forza per vivere. E, infine, percepibile al punto da immaginarlo nei tratti del maestro di violino, quel sottofondo di malinconia per un destino che lo ha voluto due volte orfano, che lo ossessiona per  la mancanza di verità. Solo la musica, quella che Jacopo ha impressa nel suo Dna e che Dasha ha coltivato con progressivo innnamoramento grazie alla cura di due genitori premurosi, riuscirà a riannodare quel filo a due che sembrava essersi spezzato per sempre.

Su tutte le immagini, quella di copertina, mi accompagna nella lettura pagina dopo pagina. Mi lascia solo a fine romanzo, quando mi sembra di essere realmente spettatrice  del concerto di beneficenza in cui Jacopo e Dasha eseguono magistralmente e direi, profeticamente, il Doppio di Brahms.

Pochi romanzi regalano queste sensazioni, appagano simultaneamente più sensi, ti legano alla pagina e ti allontanano, per il tempo della lettura, dal tuo presente. Pochi sono quelli che, quando chiudi il libro, ti fanno restare ancora per qualche giorno con la sensazione addosso della sospensione, della rarefazione dello spazio e del tempo, di essere vissuta “come in un romanzo“.

 

di Lucia Sallustio

 

Mail su inter-city


29 ottobre 2014

Cara Luciana,
ho letto con piacere la tua silloge Inter-city, che è una conferma delle tue doti letterarie.
Fin dal titolo si comprende agevolmente che lo scrigno letterario racchiude poesie formalmente odeporiche, dove la realtà individuale si fonde con la metafora ulissiaca del viaggio.
Si tratta di racconti lirici di osservazione e introspezione insieme, con frequenti spostamenti fuori/dentro, con una funzione catartica rispetto al disagio interiore.
Colpisce l’andirivieni di volti anonimi nelle stazioni ferroviarie, ma tra le partenze, i ritorni e i ritardi, si affaccia anche il viso più attentamente delineato di un migrante, oggetto di pietà e solidarietà (Afghanistan).
Pregevole è il colorismo di Grigi e accattivante, nella penultima quartina di Germogli, è il raffinato rimando («… i bei narcisi in copiose schiere. / Dritti fluttueranno al vento) a I wandered lonely as a cloud di William Wordsworth («…a crowd, / a host, of golden daffodils; / […] / fluttering and dancing in the breeze»).
Ammiccante è l'(auto)ironia finale di A new Valediction e non guasta quel leggiadro tocco di romanticismo offerto da Bagliori di un amore.
Luminosa, infine, è la splendente solarità mediterranea di Mykonos, ma vi sono, naturalmente, altre perle che altri lettori agevolmente scopriranno.

Coi più cari saluti
Marco Ignazio de Santis

Un grosso regalo a “Inter-city”


Oggi ho ricevuto una missiva che terrò cara tra i miei più preziosi riconoscimenti: una nota letteraria da parte del grande critico letterario torinese Giorgio Barberi Squarotti.
Non credevo ai miei occhi, anche perché ho spedito una copia de “La Fidanzata di Joe” e una di “Inter-city” solo lunedì pomeriggio. Un vero gentiluomo che così mi scrive:

Cara e gentile Signora,
Le sono vivamente grato del doppio dono. Il suo romanzo è molto suasivo e avvincente: racconta con lucidità e con comprensione le contraddizioni della vita e, soprattutto dell’amore, con episodi drammatici ben condotti. Le poesie sono molto singolari: raccontano e osservano i viaggi in treno nella loro fatica di un’umanità buia e umiliata e spesso ostile. e rari sono i testi di luce.
E’ un’opera valorosa e ammirevole per tanta originalità. Posso dirle che ho sempre viaggiato volentieri in treno e in treno ho scritto un gran numero di versi?

Con i più affettuosi saluti e auguri,

Giorgio Barberi Squarotti

Al settimo cielo!

Istantanee di viaggio


Mykonos

Mykonos,
onirico splendore,
candore iridescente
tratteggiato d’azzurro,
adagiata sulla collina,
sofà in riva al mare,
sventagliata dai mulini
nella brezza che lenisce
la calura mediterranea.
Mykonos
dei bagni notturni
sotto il bagliore di stelle,
richiamo di mercanti
nei corridoi tortuosi
che scendono al mare
dove attendono inquiete
imbarcazioni ardite
verso porti nuovi e antichi.
di Lucia Sallustio


GELSOMINI DI TANGERI

Danzo, scalza,
frenetica danza,
tra spine di mirto.
Di perle di sudore
la fronte brilla
E il collo rigido
Insegue il passo.
Tamburelli allegri
Incalzano il ritmo
Cellulari intorno
Fermano l’attimo.
Balla il pensiero
L’ansia dell’anima
E del momento
Coglie fragranza,
gelsomini di Tangeri
tra i capelli fradici.
di Lucia Sallustio

Return carriage: poesia o prosa poetica?


Insomma così?

E…

…e attraverso ancora
stazioni fetide di vita
logorate da storie
raccontate sottovoce
su piattaforme abusate
in attesa di annunci
che stentano ad arrivare.

E… mi logora il tempo
mentre diramo pensieri
rotti da folate di sogno
attraversata dalla brezza
di un gelido vento
che non vuole cessare
all’incalzare delle stagioni.

All’alba, sospinge spavalda
la massa di studenti
che sfida il nuovo giorno.
A sera, un latrato lontano
sveglia i randagi in stazione.
Di rimando, abbaia feroce
il branco, difende il territorio.

Si stende greve il silenzio,
coperta di feltro stracciata
dal passo inquieto del rientro.
di Lucia Sallustio

 

o come proposto da Caterina Della Torre Dolls  nella sua rivista on line?

 

Stazioni della vita

 

A proposito, grazie Caterina per la scelta dell’emblematico titolo di presentazione: “Le stazioni della vita”.

 

Auguri 2014: a ciascuno il suo!


Mi piace salutare il 2014 pubblicando una pagina di un mio romanzo inedito, con l’augurio più bello che questo sia il suo anno.

  … Forse era stato il fascino del tatami o la magia delle notti madrilene che avviluppavano sotto un cielo scuro a mantello, o ancora la tristezza delle cançoas do fado a cui Max l’aveva pian piano introdotta. Oppure era stato tutto questo. C’era, di fatto, che Rossella era restata a Madrid. Non ci restò per soli tre o sei mesi, questa volta. Il signor Déseado le aveva  fatto firmare un regolare contratto di assunzione a tempo indeterminato mentre suo figlio, senza farle firmare nulla, l’aveva incatenata a un amore che rispondeva in pieno a tutti i clichè dell’amore romantico, con le piccole follie reciproche che ne intensificavano l’unicità.

   Si erano ripromessi di non vincolarsi con stupide catene amorose, si erano dichiarati moderni e ribelli, si erano giurati che nulla sarebbe cambiato nelle loro vite libere di un tempo, nulla che potesse ledere le loro ambizioni.

   Poi si erano cercati sempre più spesso, l’ossessione l’uno dell’altra nella mente e, ogni volta, finivano su quel tatami che aveva sconvolto le loro vite come uno tsunami.

   “Rimani qui con me, stanotte. Non ho voglia di restare solo” le aveva chiesto, infine, una sera di dicembre. Natale era alle porte, le illuminazioni della grande festa guadagnavano giorno dopo giorno nuovi quartieri, giravano i primi zampognari dei Pirenei a diffondere canti d’avventi e di pastori, e il freddo era giunto tagliente una mattina più grigia delle altre. Era il primo inverno a Madrid per Rossella, e un dolce sentimento nostalgico s’era insinuato nel suo cuore. Non ebbe alcuna esitazione. Non voleva restare nemmeno lei da sola nella stanza fredda e troppo squadrata della pensione dove soggiornava. Un lungo bacio, un preambolo a una notte d’amore dolce e appassionata, sostituì quel sì, quella sillaba che non fece in tempo a pronunciare. Era troppo felice. Era l’eroina dei suoi romanzi rosa e Max non era il pilota di quelle storie, ma era bello e sensuale e innamorato e imprevedibile proprio come uno di loro.

   “Te quiero” le disse. 

da romanzo inedito di Lucia Sallustio

gocce di poesia


Viaggi

Cuori di speranza

accendono sorrisi

in visi d’incertezza.

Si serrano amicizie

in cordame d’acciaio

che imbraga fragilità.

Al vento dell’ignoto

si gonfiano ardite le vele

lacerate da scossoni.

Restano, soli a navigare

amaro a masticare.

S’intravedono da lontano

orme di sopravvissuti

sulla spiaggia deserta.

Di Lucia Sallustio

Chi continua?


CANARY WHARF

L’isola dei cani

di Lucia Sallustio

   Lanciò uno sguardo di sfida al telefono, continuava a restare muto. L’orologio di fronte alla scrivania segnava già le 8 di sera, fuso londinese. L’australiano doveva risponderle già da un’ora prima. Non se ne sarebbe andata finché quel dannato telefono non avesse squillato, un solo giorno e l’affare sarebbe andato a finire in altre mani. La fornitura di allestimenti sportivi era colossale e aveva un prezzo troppo appetibile perché la concorrenza in giro, più di quella che potesse immaginare, non ne fosse solleticata. Non poteva rischiare, avrebbe aspettato ancora,  a costo di restarsene a dormire in ufficio. Le era già capitato altre volte, troppo testarda per rinunciare. Ma soprattutto per mostrarsi sconfitta. Se l’era costruita tutta la carriera, lei. Da sola. Sì, qualche aiutino qua e là se l’era cercato, ma solo con la forza della sua testa e, in qualche caso, della sua bellezza.

Le dita affilate tamburellavano sulla scrivania, mentre dava una scorsa al bilancio della NewThreshold Ltd. Lo lesse svogliatamente, aveva già dodici ore di lavoro alle spalle e l’alzataccia del mattino dopo l’insonnia notturna.

Le dita ritmavano stanche, ora. Si stava quasi appisolando sul dossier.

“Eccoli qua. Finalmente” sibilò precipitandosi con tutto il busto sulla cornetta.

“Hello? Eveline Thorntons, speaking”

La voce volutamente composta riempì di echi la stanza vuota. Per qualche secondo ripiombò il silenzio. Eveline annuiva. Non aveva nemmeno la forza di ribattere. Le avevano soffiato l’affare. Richiuse.

Il pugno secco sulla scrivania fece rimbalzare la Monblance alcuni fogli sul pavimento. Fremeva per la rabbia. Non erano tempi da perdere una fornitura del genere. Valeva almeno più del doppio e le Olimpiadi si avvicinavano.

Se l’era lasciato sfuggire come una stupida. Era stato quel giorno in cui la cervicale l’aveva inchiodata al letto. L’aveva rovinata, dannata cervicale, l’unica capace di azzerarla e trattenerla dal lavoro. Pure con la febbre andava in ufficio. Ma quando tutto prendeva a girarle intorno e gli occhi partivano in quello spinning impazzito, allora non ce la faceva proprio.

“Eppure continuo a pensarlo, sarà” borbottò, poco convinta.

Ricordava di avere lasciato l’appunto sulla scrivania, la sera prima dell’attacco di cervicale. Ma poi non l’aveva più trovato.

“Maledetti inservienti”

Un tonfo dal corridoio catturò la sua attenzione. Sollevò lo sguardo oltre la vetrata. Intravide una sagoma china a raccattare qualcosa. Era il giovane delle pulizie. Ogni sera, dopo le ore di ufficio, la stessa storia. Una vecchia storia che conosceva troppo bene. Non si era mai soli in quegli uffici. Avrebbe fatto meglio a dare uno sguardo al capitolato, per sapere almeno quando pulivano l’ultimo piano. Almeno in quei giorni avrebbe fatto più attenzione con documenti e appunti di rilievo.

L’uomo si sentì osservato e sollevò lo sguardo verso di lei. Lo guardò dura, con sospetto, quasi ad ammonirlo che con lei non si scherzava.

“Posso?” le chiese timidamente, entrando in ufficio con il carrello a seguito e in mano lo spazzolone per i pavimenti appena raccattato.

Non lo degnò di risposta. Meglio evitare ogni promiscuità. Doveva chiudere la faccenda dell’appalto saltato, al più presto. Johnsons della

Sports Scaffolding S.P.A  aspettava la risposta. Cercò in memoria e digitò il numero. L’uomo delle pulizie non le levava gli occhi di dosso, nemmeno per un secondo. Lo sguardo la infastidì e non per l’imbarazzo, aveva dimenticato da un decennio quella sensazione. Come si permetteva, quello sfrontato. Non sapeva chi era lei? Chi non temeva Eveline Thorntons, l’implacabile General Manager della omonima società?